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S’inoltrarono nel basso edificio vivamente illuminato, verso cui confluiva su un trasportatore a nastro un fiume ininterrotto di sabbia. In realtà non c’era molto da vedere, e benché l’ingegnere di turno fosse più che disposto a spiegare all’ospite tutto il processo di trasformazione fin nei dettagli più minuti, Gibson si accontentò di imparare che i minerali venivano scissi in fornaci elettriche, dopo di che l’ossigeno veniva estratto, purificato, e compresso, mentre le diverse poltiglie metalliche erano sottoposte a tutto un susseguirsi di processi più complicati. Lì si produceva inoltre una notevole quantità d’acqua, sufficiente per i bisogni della colonia, per quanto sul pianeta esistessero anche altre fonti di questo liquido indispensabile.

«Oltre all’immagazzinamento dell’ossigeno dobbiamo badare a che la pressione atmosferica sia mantenuta al suo livello normale, e a sbarazzarci dell’anidride carbonica» spiegò il maggiore Whittaker. «Vi rendete conto, immagino, che la cupola si regge unicamente grazie alla pressione interna senza l’ausilio di altri sostegni.»

«Certo» disse Gibson. «Se la pressione venisse a mancare, tutto l’involucro si affloscerebbe come un pallone sgonfiato.»

«Proprio così. D’estate manteniamo una pressione di centocinquanta millimetri, d’inverno la alziamo leggermente. Questo ci consente di ottenere quasi la stessa pressione di ossigeno dell’atmosfera terrestre. In quanto all’anidride carbonica, ce ne liberiamo lasciando lavorare le piante per noi. Ne abbiamo importate apposta parecchie, poiché le piante marziane non seguono il processo di fotosintesi.»

«È questa la funzione dei girasoli ipertrofici di Oxford Circus, immagino.»

«Quelli veramente erano destinati più a uno scopo ornamentale, e temo che stiano diventando un po’ troppo ingombranti. Bisognerà che mi decida a farli togliere, altrimenti seguiteranno a spargere semi dappertutto! Ma adesso muoviamoci di qua e andiamo a dare un’occhiata alla fattoria.»

La definizione di fattoria che stava a indicare il grande impianto alimentare che occupava tutta la Cupola Tre in realtà era assai impropria. Nell’edificio l’atmosfera era umidissima e la luce solare era stata rafforzata da parchi di lampade fluorescenti in modo che la crescita potesse continuare notte e giorno ininterrottamente. Gibson se n’intendeva pochissimo di culture idroponiche, cosicché le cifre che il maggiore Whittaker gli andava orgogliosamente sciorinando gli fecero poco effetto. Riuscì tuttavia a capire che il problema più urgente era quello della produzione di carne, e ammirò l’ingegnosità con cui si era parzialmente ovviato a questo bisogno mediante la coltura di tessuti su vasta scala in grandi tinozze di fluido nutriente.

«Sempre meglio che niente» osservò con malinconia il maggiore. «Che cosa non darei per una costoletta di agnello genuina! Il guaio di una produzione naturale è che prenderebbe troppo spazio, e questo è un lusso che non ci possiamo permettere assolutamente. Tuttavia, non appena sarà terminata la nuova cupola, avvieremo una fattoria modesta con qualche pecora e un paio di mucche. Chissà come si divertiranno i bambini. Non hanno mai visto un animale vivo, capite?»

Il che però non era del tutto esatto, come Gibson avrebbe scoperto in seguito, perché il maggiore si era momentaneamente dimenticato di due tra i più notevoli residenti di Porto Lowell.

Alla fine della visita d’ispezione Gibson si sentì la testa parecchio stanca. I meccanismi della vita cittadina erano troppo complicati, a Porto Lowell, e il maggiore si era preoccupato di mostrargli assolutamente tutto. Perciò lo scrittore fu contento quando il giro della città ebbe finalmente termine e poterono rientrare a casa del maggiore per la cena.

«Credo che per oggi ne abbiate avuto abbastanza» disse Whittaker, «ho voluto farvi vedere il più possibile perché domani saremo tutti occupatissimi e quindi non potrò dedicarvi molto tempo. Il Capo è assente, come forse saprete, e sarà di ritorno soltanto giovedì, quindi dovrò occuparmi io di tutto.»

«Dove è andato?» domandò Gibson, più per cortesia che per curiosità vera e propria.

«Oh, su Phobos» rispose il maggiore dopo una brevissima esitazione. «Non appena tornerà, sarà lieto di vedervi.»

La conversazione era stata poi interrotta dall’arrivo della signora Whittaker e dei figli, e per tutto il resto della serata Gibson fu costretto a parlare esclusivamente della Terra. Era la sua prima, e non sarebbe stata certamente l’ultima, esperienza dell’interesse insaziabile dimostrato dai coloni per il pianeta d’origine. Un interesse che di rado ammettevano apertamente, fingendo anzi un’ostentata indifferenza per il vecchio mondo e le sue vicende. Ma le domande e soprattutto le pronte reazioni alle critiche e ai commenti terrestri tradivano il loro reale atteggiamento.

Era strano parlare a bambini che non avevano mai conosciuto la Terra, che erano nati e avevano trascorso la loro breve esistenza sempre ed esclusivamente al riparo delle grandi cupole. Gibson si chiedeva che significato avesse per loro la Terra. Era forse più reale, per loro, dei regni immaginari delle favole? Tutto quello che avevano appreso del mondo dal quale i loro genitori erano emigrati, era di seconda mano, derivato da libri o da fotografie e immagini. Per quello che riguardava i loro sensi, la Terra era soltanto un pianeta sconosciuto e lontanissimo, oggetto forse di qualche pensiero ma non di desiderio.

Eppure quei bambini, malgrado l’ambiente completamente artificiale da cui erano circondati, avevano un aspetto sano e felice, e sembravano serenamente inconsapevoli delle molte cose che a loro mancavano e che non avevano mai avuto. Gibson si chiese quali sarebbero state le loro reazioni se un giorno fossero andati sulla Terra. Sarebbe stato un esperimento estremamente interessante, ma per il momento nessun bambino nato su Marte era ancora abbastanza adulto per poter essere separato dai genitori.

Quando Gibson lasciò la casa del maggiore, al termine della giornata marziana, le luci della città si stavano spegnendo. Parlò pochissimo mentre Whittaker lo riaccompagnava all’albergo: aveva l’animo troppo gonfio di impressioni confuse e contrastanti. L’indomani mattina avrebbe cercato di esaminarle e catalogarle.

Per il momento la sua sensazione era che la maggiore città marziana fosse soltanto un grosso villaggio-giocattolo supermeccanizzato.

Al di là del riparo della cupola, oltre le alture vermiglie, oltre il limite della pianura di smeraldo… il resto di quel mondo era ancora un mistero inviolato e ignoto.

9

«Mi fa davvero piacere rivedervi finalmente tutti quanti» disse Gibson, trasportando cautamente le bibite dal piano del bar. «E adesso chissà che cosa combinerete qui a Porto Lowell. Immagino che la prima mossa sarà quella di rimettervi in contatto con le ragazze del posto.»

«Il che non è mai un’impresa facile» disse Norden.

«Di solito, da un viaggio all’altro le ritroviamo sposate, quindi bisogna andarci con molto tatto. A proposito, George, che ne è della signorina Mackinnon?»

«Vuoi alludere alla signora Henry Lewis, comandante» lo corresse George, «madre di un bambino molto bello.»

«Pazienza!» sospirò Norden. «Speriamo che mi abbiano lasciato una fetta di torta nuziale. Alla tua salute, Martin.»

«E a quella dell’Ares» soggiunse Gibson facendo tintinnare il bicchiere contro quello dell’amico. «Mi auguro che l’abbiate rimessa insieme a dovere. Quando vi ho lasciati era alquanto malridotta.»

Norden rise.

«Le rimetteremo a posto la corazza solo dopo che avremo rifatto il carico. Ma non c’è pericolo che si rovini per eccesso di pioggia.»