La voce di Mackay, resa curiosamente sottile dall’atmosfera rarefatta, lo fece volgere di scatto. «Qualcuno sta per atterrare laggiù, verso destra.»
Gibson ebbe qualche difficoltà a individuare il piccolo razzo a freccia che si muoveva velocissimo nel cielo. Il traghetto si librò sulla città e si perse dietro le cupole per raggiungere la pista di atterraggio. Gibson si augurò che gli portasse il resto del bagaglio, dal quale era rimasto separato troppo a lungo.
L’Osservatorio sorgeva quattro o cinque chilometri più a sud, proprio sul ciglio della collina, dove le luci di Porto Lowell non correvano il rischio di disturbare l’opera degli scienziati. Gibson aveva sperato di vedere le specole scintillanti che sulla Terra contraddistinguono il luogo di lavoro degli astronomi, ma lì la cupola era costituita dalla solita bolla in materiale plastico dei quartieri di abitazione. Gli strumenti si trovavano all’aperto, e soltanto nel rarissimo caso di maltempo venivano ricoperti.
Il posto, a mano a mano che la pulce si avvicinava, sembrava completamente deserto. Si fermarono accanto allo strumento principale, un riflettore a specchio del diametro inferiore a un metro. Era sorprendentemente piccolo per far parte delle installazioni astronomiche del massimo osservatorio marziano. C’erano poi due minuscoli rifrattori, e un complicato aggeggio orizzontale. Mackay spiegò che era un telescopio a specchio girevole sull’asse orizzontale. Oltre alla cupola pressurizzata, non c’erano altri edifici.
All’interno però doveva esservi qualcuno, perché davanti all’ingresso era ferma una piccola pulce del deserto.
«Sono gente molto socievole» disse il giovane geologo mentre fermava il veicolo. «Qui la vita è assai monotona, e loro sono sempre felici di vedere qualcuno. Inoltre, sotto la cupola avremo la possibilità di sgranchirci le gambe e di mangiare in santa pace.»
«Ma non possiamo pretendere che ci preparino loro il pranzo» protestò Gibson, al quale seccava moltissimo di dover incorrere in obblighi che non gli era possibile ricambiare immediatamente.
Il giovane scienziato lo guardò sorpreso, quindi scoppiò in una sonora risata.
«Qui non siamo sulla Terra, sapete? Su Marte tutti si aiutano a vicenda… per forza. Altrimenti non si concluderebbe mai niente. Io però ho portato un po’ di provviste. Mi basta soltanto usare la loro cucina. Cucinare nell’interno di una pulce con quattro persone a bordo è alquanto scomodo.»
Come il geologo aveva preannunciato, i due astronomi di turno li accolsero con entusiasmo, e poco dopo, l’impianto d’aria condizionata della piccola cupola di plastica fu sottoposto a un superlavoro per sbarazzare l’ambiente degli odori della cucina. Mackay aveva subito agganciato l’astronomo più anziano, intavolando con lui una discussione tecnica sul lavoro dell’Osservatorio. Gibson non ne capiva quasi niente ma cercò lo stesso di assorbire il più possibile e di far tesoro di quella conversazione.
A quanto pareva la maggior parte del lavoro sbrigato nell’Osservatorio riguardava l’astronomia di posizione, cioè consisteva nel compito noioso ma importantissimo di trovare le latitudini e le longitudini, controllare l’esattezza dei segnali orario eccetera. Di lavoro d’osservazione se ne faceva pochissimo: di questo se ne occupavano già da molto tempo gli strumenti installati sulla Luna terrestre, e i piccoli telescopi dell’Osservatorio marziano, che erano oltretutto intralciati dalla presenza di un’atmosfera, non potevano certo competere con quelli. Erano state misurate le parallassi di alcune stelle più vicine, ma la maggior precisione offerta dalla più vasta orbita marziana era talmente lieve da rendere pressoché inutili gli sforzi in questo senso.
Dopo il pasto, gli ospiti furono invitati a dare un’occhiata nel grande riflettore. Poiché si era alle prime ore del pomeriggio, Gibson non avrebbe mai immaginato che ci fosse molto da vedere, ma era un glosso errore da parte sua, come non doveva tardare ad accorgersi.
Sospesa nel campo visivo, contro al cielo quasi nero, vicino allo zenith, Gibson vide una bellissima falce perlacea simile a una luna di tre giorni. Sul tratto illuminato recava chiaramente visibili alcuni rilievi, ma per quanto lo scrittore aguzzasse gli occhi al massimo non gli fu possibile di individuarli. Troppa parte del pianeta era in ombra perché lui potesse discernere i continenti maggiori.
Non molto lontano, ma assai più piccola e più pallida, aleggiava un’altra mezzaluna, lungo il cui orlo Gibson poté distinguere con facilità qualcuno tra i crateri più noti. Formavano davvero una bella coppia i corpi gemelli Terra e Luna, ma apparivano talmente remoti ed eterei che Gibson non provava più alcuna nostalgia e alcun rimpianto per tutto quello che vi aveva lasciato.
Uno dei due astronomi gli stava parlando, il casco vicinissimo al suo.
«Quando è buio si possono vedere le luci delle città, sul lato notturno. New York e Londra si distinguono benissimo. Lo spettacolo più bello però è il riflesso del sole sul mare. Lo si nota vicino all’orlo del disco quando non c’è nuvolaglia… è come una stella brillantissima e tremula. Adesso però non è visibile perché quello che si vede sul tratto della falce è quasi tutta terraferma.»
Quando non ci fu proprio più niente di nuovo da vedere, si accomiatarono dai due astronomi che li salutarono con un po’ di tristezza quando la pulce si allontanò seguendo la cresta della collina. Il giovane geologo disse che intendeva fare un piccolo giro per raccogliere alcuni campioni di roccia, e poiché per Gibson una parte di Marte equivaleva all’altra, lo scrittore non fece obiezioni.
Sulle colline non esistevano vere e proprie strade, ma in epoche remotissime ogni asperità del suolo era stata livellata cosicché il terreno appariva ora perfettamente liscio e piano. Qua e là qualche masso ostinato sporgeva ancora dalla superficie uniforme del pianeta, offrendo un contrasto caleidoscopico di colori e forme, ma erano ostacoli facilmente aggirabili. Un paio di volte notarono piccoli alberi, se così si potevano chiamare, di una specie che Gibson non aveva mai visto prima. Più che alberi sembravano rami di corallo, rigidi e pietrificati. A detta del geologo, la loro età era incalcolabile poiché, per quanto fossero certamente vivi, nessuno era ancora riuscito a calcolarne la velocità di crescita. Certo non potevano avere meno di 50.000 anni. Il loro sistema di riproduzione era un mistero assoluto.
Verso la metà del pomeriggio, giunsero a una bassa roccia splendidamente colorata. Ponte dell’Arcobaleno la chiamò il geologo, e richiamò irresistibilmente alla memoria di Gibson un fiammeggiante canyon dell’Arizona, anche se in scala minore. Smontarono dalla pulce, e mentre lo scienziato raccoglieva i suoi campioni, Gibson scattò tutto un rullino di pellicola a colori portata con sé appunto per occasioni simili.
«Sarà bene avviarci, se vogliamo essere a casa per l’ora del tè» disse a un certo punto il geologo. «Possiamo ritornare per la stessa strada oppure girare dietro le colline. Che cosa preferite?»
«Perché non passiamo per la pianura? Sarebbe il percorso più diretto» suggerì Mackay, il quale cominciava a essere un po’ annoiato della gita.
«Ma anche il più lento… bisogna procedere a passo d’uomo, attraverso quei cavoli troppo cresciuti.»
«Io detesto tornare sui miei passi» disse Gibson. «Giriamo dietro le colline e vediamo un po’ quello che troviamo da quelle parti.»
La giovane guida rise.
«Non illudetevi con speranze inutili. Di qui o di lì è pressappoco lo stesso. Su, si parte!»
La pulce balzò in avanti e il Ponte dell’Arcobaleno scomparve presto alle loro spalle. Il percorso si snodava ora attraverso una regione completamente brulla, dove anche gli alberi pietrificati erano scomparsi. A volte Gibson notava chiazze verdi, che credeva vegetazione, ma non appena si avvicinavano scopriva invariabilmente un ennesimo giacimento minerale. Era però un paesaggio straordinariamente bello, un vero paradiso geologico, e Gibson sperò in cuor suo che gli uomini non osassero mai saccheggiarlo con i loro scavi e le loro ricerche scientifiche e minerarie, perché certamente quella zona era una delle località più interessanti di Marte.