Viaggiavano da forse mezz’ora quando le colline presero a digradare entro una lunga valle serpeggiante che presentava senza possibilità di equivoco tutte le caratteristiche di un antico corso d’acqua. Cinquanta milioni di anni prima circa, spiegò il geologo, un grande fiume scorreva in quel letto per portare le sue acque nel Mare Erythraeum, uno dei pochi mari marziani, se così si potevano definire. Fermarono il mezzo e osservarono l’alveo vuoto con un misto di sentimenti contrastanti. Gibson tentò d’immaginare come doveva essere la regione in quei tempi remoti, nel periodo in cui i grandi rettili dominavano la Terra e l’Uomo era ancora una larva dall’imperscrutabile, lontanissimo futuro. Le rocce rosse non dovevano essere molto diverse da allora. In mezzo alle rocce, il fiume si era certamente aperto un varco verso il mare, con moto lento e pigro per effetto della debole gravità. Uno spettacolo quasi terrestre, ma lì era mai stato visto o percepito da esseri intelligenti?
L’antico fiume aveva lasciato in retaggio qualcosa di assai prezioso perché lungo le propaggini più basse della valle resisteva ancora una certa umidità, e una stretta striscia di vegetazione segnava in quel punto le rive dell’Erythraeum, e il suo verde smagliante formava un vivido contrasto col cremisi delle rocce. Le piante erano le stesse che Gibson aveva visto sull’altro versante delle colline, ma qua e là ne spiccavano di nuove. Erano anche sufficientemente alte da poter essere definite alberi, però non avevano foglie ma soltanto rami sottili, a forma di frusta, che vibravano di continuo malgrado l’immobilità dell’atmosfera. Gibson pensò che erano tra gli oggetti più inquietanti che lui avesse mai visto in vita sua. Gli sembrava che dovessero inaspettatamente, minacciosamente, allungare quei loro ripugnanti tentacoli a ghermire il passante ignaro. Invece erano piante assolutamente innocue, come tutto quello che si trovava su Marte.
Avevano attraversato la valle a zig-zag e si stavano inerpicando sul pendio opposto quando la loro guida fermò improvvisamente la vettura.
«Oh, questa è curiosa!» disse. «Non sapevo che ci fossero lavori in corso da queste parti!»
Per un attimo Gibson, che non era poi così buon osservatore come si illudeva di essere, non seppe dove guardare. Finalmente notò un solco di ruota appena visibile, perpendicolare con la direzione seguita da loro.
«Devono essere passati degli automezzi pesanti di qui» proseguì la guida. «Sono sicuro che questo solco non c’era l’ultima volta che sono venuto da queste parti… quando è stato? Vediamo… circa un anno fa. E da quella volta non c’è stata nessuna spedizione all’Erythraeum.»
«Dove conduce?» chiese Gibson.
«Risalendo la valle e passando sull’altra parte si torna a Porto Lowell. È quello che avevo intenzione di fare io. Nel senso opposto invece si va al mare.»
«Abbiamo ancora tempo. Andiamo un po’ da quella parte!»
Il geologo acconsentì di buon grado. Girò la pulce e puntò verso il fondo valle. Di tanto in tanto, nei tratti di terreno formato da roccia levigata, la pista scompariva per riapparire però quasi subito. A un certo punto però la persero definitivamente.
La guida fermò l’automezzo.
«Adesso capisco» disse. «Può essere andato soltanto da quella parte. Avete notato un passo, a un chilometro circa da qui? Scommetto dieci contro uno che si è diretto là.»
«E cosa c’è da vedere, là?»
«Questo è il curioso: si tratta di un vero e proprio vicolo cieco. C’è, è vero, un interessante anfiteatro naturale del diametro di due chilometri circa, ma non è possibile uscirne se non dalla parte da cui si è entrati. Ci ho passato un paio d’ore, una volta, quando abbiamo cominciato a fare i primi rilievi della regione. È un posto gradevole, ben riparato, e che in primavera offre un po’ d’acqua.»
«Un ottimo rifugio per contrabbandieri» osservò Gibson.
La stretta gola aveva certo ospitato un tempo un affluente del fiume principale, e percorrerla era assai più difficile di quanto non fosse stato viaggiare lungo la valle centrale. Bastarono comunque pochi metri per capire che avevano indovinato: la pista infatti era ricomparsa subito chiarissima.
«Qui hanno fatto saltare qualcosa» disse il geologo. «Questo tracciato non esisteva quando sono venuto qui la prima volta. Ricordo che ho dovuto compiere un giro vizioso su per quel pendio, e che ho rischiato di dover abbandonare la pulce.»
«Chissà che cosa stanno facendo» disse Gibson, elettrizzato dalla curiosità professionale.
«Non lo so. Ci sono alcuni piani di ricerche talmente specializzate che se ne sente parlare molto poco. Certe cose non si possono fare vicino alla città, capite? Può darsi che stiano costruendo un osservatorio magnetico, almeno così ho sentito dire ultimamente. A Porto Lowell i generatori sarebbero ottimamente schermati dalle colline. Ma non credo che si tratti di questo perché se fosse così me l’avrebbero detto… Ehi, ma che cos’è quello?»
Di fronte a loro si stendeva un ovale di verde quasi perfetto, fiancheggiato dalle basse colline color ocra. Forse quella conca aveva raccolto un tempo un pittoresco lago alpino, e ancora oggi offriva un conforto all’occhio stanco di tutta quella roccia multicolore ma priva di vita. Per il momento però Gibson non degnò neppure di uno sguardo lo smagliante tappeto vegetale, perché era rimasto a fissare trasognato un assembramento di cupole raggruppate al limite della piccola pianura. Parevano una riproduzione in miniatura di Porto Lowell.
Proseguirono in silenzio lungo la strada che era stata aperta attraverso il vivo tappeto verde. Fuori dalle cupole non c’era nessuno, ma un grosso veicolo da trasporto, grande almeno cinque volte la loro pulce, sostava all’esterno indicando chiaramente che dentro qualcuno doveva pure esserci.
«Ma questo è un impianto in piena regola» disse lo scienziato, sempre più sorpreso, mentre si sistemava la maschera. «Avranno certamente avuto le loro buone ragioni per spendere chissà quanto. Aspettate qui che io vado a dare un’occhiata.»
Lo videro scomparire nel compartimento stagno della cupola principale e agli impazienti passeggeri parve che la sua assenza si prolungasse per un tempo lunghissimo. Infine videro la porta esterna riaprirsi e la loro guida uscirne e avviarsi lentamente verso di loro.
«Allora?» domandò Gibson mentre il giovane risaliva sull’automezzo. «Cosa vi hanno detto?»
Il geologo non rispose. Senza parlare avviò il motore, e la pulce del deserto cominciò a muoversi.
«Be’? E la tanto decantata ospitalità marziana?» protestò Mackay.
«Non ci hanno invitati a entrare?»
Il geologo sembrava estremamente impacciato. La sua faccia aveva l’espressione di chi si è reso conto di aver commesso una fesseria. Almeno così parve a Gibson. Il giovane si schiarì nervosamente la voce.
«È una stazione di ricerche» disse, cercando accuratamente le parole. «È poco che l’hanno impiantata, e per questo io non ne sapevo niente. Non possiamo entrare perché tutto è completamente sterilizzato, e non vogliono correre il rischio che i visitatori portino dentro delle spore. Avremmo dovuto cambiarci da capo a piedi e fare un bagno nel disinfettante.»
«Capisco» disse Gibson. Qualcosa gli diceva di non insistere con le domande. Grazie al suo infallibile intuito aveva capito che la sua guida gli aveva detto solo una parte della verità, e la meno importante. In quel momento tutti i dubbi che si erano accumulati nella sua mente si riproposero alla sua attenzione. Tutto era cominciato ancora prima del suo arrivo su Marte, era cominciato con il dirottamento dell’Ares da Phobos. E adesso era andato a inciampare in questa stazione segreta di ricerche. Era stata una sorpresa non soltanto per loro ma persino per il geologo che pure si vantava di essere al corrente di tutto quello che succedeva sul pianeta, e che ora cercava, in modo davvero commovente, di rimediare alla sua involontaria indiscrezione.