Probabilmente era stato svegliato da un cambiamento nella luce morente. Per un attimo non riuscì a capire quello che vedeva. Rimase immobile a guardare a bocca spalancata, letteralmente paralizzato dallo stupore. Davanti a sé non aveva più il paesaggio piatto, uniforme di poco prima. Deserto e orizzonte erano svaniti e al loro posto torreggiava una catena di montagne vermiglie che si allungavano a perdita d’occhio da nord a sud. Gli ultimi raggi del sole morente ne sfioravano le cime mentre il resto scompariva nella notte che stava avanzando verso occidente.
Per alcuni secondi lo splendore dello spettacolo tolse alla situazione ogni senso di realtà e perciò di minaccia. Infine Gibson si scosse dall’inebetimento in cui era caduto, e con panico improvviso si rese conto che stavano volando a quota troppo bassa per evitare quelle cime da Himalaya!
Al panico improvviso seguì una stretta assai più angosciosa di terrore cosciente, perché si era ricordato di un particolare che nel primo sgomento aveva completamente scordato, e che pure era un l’atto, una realtà arcinota: su Marte non c’erano montagne!
Quando gli portarono la notizia, Hadfield stava dettando un appunto ingente per l’ufficio sviluppi interplanetari. Porto Schiaparelli aveva dato l’allarme quindici minuti dopo il tempo previsto per l’arrivo dell’apparecchio, e il Controllo di Porto Lowell aveva aspettato altri dieci prima di lanciale il segnale di ritardo. Un prezioso velivolo della minuscola squadra marziana si teneva già pronto a decollare non appena fosse spuntata l’alba. L’alta velocità e la bassa quota, essenziali al volo, rendevano tutte le ricognizioni estremamente difficili, ma non appena fosse sorto Phobos i telescopi di lassù avrebbero potuto funzionare collaborando alle ricerche con maggiori probabilità di successo.
La notizia arrivò alla Terra un’ora dopo in un momento in cui radio e stampa erano a corto di notizie. Dopo l’annuncio la gente si affrettò a leggere gli ultimi articoli di Gibson con interesse morboso. Ruth Goldstein non ne seppe niente fino al momento in cui andò da lei, sventolando un giornale della sera, un redattore col quale doveva discutere un paio di questioni tecniche. Ruth vendette immediatamente i diritti di ristampa dell’ultima serie di articoli di Gibson per il doppio di quanto il compratore avrebbe voluto pagarli, poi si ritirò nel suo ufficio privato e pianse disperatamente per oltre un minuto. Questi due fatti sarebbero piaciuti immensamente a Gibson.
L’urlo di Gibson echeggiava ancora per la cabina quando il pilota raggiunse i comandi. Poi l’apparecchio fece un’impennata nel disperato tentativo di virare a nord, e Gibson rotolò sul pavimento. Quando poté rimettersi in piedi vide una rupe arancione dai contorni stranamente sfuocati che veniva loro incontro da pochi chilometri di distanza. Pur nel panico di cui era preda notò che c’era qualcosa di molto curioso in quella barriera che avanzava furiosamente, e a un tratto capì. Quella non era una catena di montagne ma qualcosa di altrettanto mortale. Erano incappati in un muro di sabbia sospinto dal vento, che dal deserto si elevava sin quasi al limite della stratosfera.
L’uragano li investì un istante dopo. Qualcosa sferzò violentemente l’apparecchio sui due lati. Attraverso l’intercapedine isolante dell’ossatura giunse un boato iroso, sibilante, il suono più pauroso che Gibson avesse mai sentito. La notte era scesa improvvisamente su di loro, e adesso volavano alla cieca in mezzo a dense tenebre urlanti.
Tutto finì in pochi minuti che a Gibson sembrarono durare un’eternità. Era stata la loro velocità a salvarli: l’apparecchio aveva trapassato il cuore dell’uragano come un proiettile. Improvvisamente si diffuse una luce crepuscolare color rosso rubino, l’aereo cessò di essere martellato come da milioni di martelli, e un silenzio pieno d’echi riempì la piccola cabina. Attraverso il finestrino di poppa Gibson colse un’ultima visione della tempesta che si allontanava verso ovest trascinandosi dietro l’intero deserto.
Le gambe molli come gelatina, Gibson raggiunse barcollante il suo posto, mentre dal petto gli usciva un intenso sospiro di sollievo. Per un attimo si chiese se fossero stati scaraventati irrimediabilmente fuori rotta, poi pensò che questo avrebbe avuto poca importanza considerato il perfetto apparato di navigazione strumentale al quale potevano affidarsi.
Fu proprio allora, mentre il suo udito maltrattato dal fragore dell’uragano ricominciava a funzionare, che Gibson ricevette il secondo colpo: i motori si erano fermati.
Nella cabina il silenzio si era fatto teso.
A un tratto il pilota ordinò senza voltarsi: «Mettetevi le maschere. Può darsi che l’ossatura si fracassi mentre atterriamo.»
Con dita molli Gibson prese la maschera da sotto al sedile e se l’agganciò in qualche modo. Quando fu pronto, il suolo si era fatto molto più vicino, benché la luce smorzata impedisse di calcolare la distanza esatta.
Una bassa collina sfilò di fianco a loro e si perse nelle tenebre. L’apparecchio s’inclinò violentemente per evitarne un’altra, poi con un brusco scossone, toccò terra e rimbalzò. Un attimo dopo riprese contatto con il terreno e Gibson si irrigidì in attesa del capottamento inevitabile.
Gli parve che passasse un secolo, poi osò finalmente rilassarsi, ancora incapace di credere che fossero sani e salvi. Accanto a lui, Hilton si stirò nel suo sedile, si tolse la maschera e gridò al pilota: «Bravo! Un atterraggio magnifico, comandante! E adesso quanta strada dovremo fare a piedi?»
Per un attimo nessuno parlò, poi il pilota chiese, con voce alterata: «Chi mi accende la sigaretta? Mi tremano le mani.»
«Pronti» disse Hilton tendendogli un fiammifero. «Possiamo accendere le luci della cabina, adesso, vero?»
Il chiarore caldo intimo, contribuì a risollevare gli animi dei naufraghi, scacciando l’ostile notte marziana in cui erano immersi.
«Che razza di uragano!» disse Gibson. «Ne capitano spesso su Marte di temporali come questi? Come mai non ne siamo stati avvertiti in tempo?»
Superato il trauma iniziale, il pilota stava facendo mentalmente un rapido riassunto degli avvenimenti, già prevedendo l’inchiesta inevitabile. Nonostante il pilota automatico, forse avrebbe dovuto andare più spesso a prua…
«Di simili non ne avevo ancora visti» disse, rispondendo alla prima domanda di Gibson, «e sì che ho volato almeno cinquanta volte tra Porto Lowell e Skia. Il guaio è che in fatto di meteorologia marziana non sappiamo ancora niente. Inoltre in tutto il pianeta ci sono soltanto cinque o sei stazioni meteorologiche. Troppo poche per avere informazioni esatte e tempestive.»
«E Phobos che cosa fa? Non potevano vedere quello che stava succedendo e avvisarci?»
Il pilota consultò rapidamente una tabella.
«Phobos non si è ancora levato» disse dopo un breve calcolo. Secondo me la tempesta si è alzata improvvisamente da Hades. Con tutta probabilità a quest’ora è già cessata. Credo che non si sia neppure avvicinata a Charontis, e forse questo è il motivo per cui non ci hanno avvertiti. Si è trattato di una di quelle disgrazie in cui nessuno ha colpa.
Questa idea parve sollevarlo visibilmente, Gibson però non se la sentiva di essere altrettanto filosofo.
«E intanto siamo bloccati qui» borbottò. «Quanto tempo ci vorrà perché ci trovino? O abbiamo qualche speranza di riuscire a riparare l’apparecchio?»
«Questa speranza abbandonatela subito. I reattori sono inutilizzabili. Erano stati costruiti per funzionare nell’aria, non nella sabbia, purtroppo.»
«Possiamo mandare un messaggio a Skia, no?»
«Adesso che siamo a terra, non è possibile. Ma quando sorgerà Phobos… vediamo… tra un’ora, potremo chiamare l’Osservatorio e di lì ci collegheremo in relais con la Centrale. È così che siamo costretti a fare durante tutti i nostri voli lunghi, capite? La ionosfera è troppo debole per ritrasmettere segnali continui come avviene sulla Terra. Comunque voglio dare un’occhiata alla radio per vedere se funziona.»