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Gibson conosceva già i fatti. Ricordava ancora i radiomessaggi che avevano attraversato lo spazio, ritrasmessi da un mondo all’altro. Ma adesso era completamente diverso ascoltare il racconto di quell’avventura dalla viva voce di Hilton che narrava col suo tono calmo, quasi impersonale, come se, anziché protagonista, fosse stato semplice spettatore.

Parlò di Titano e dei suoi fratelli minori, le piccole lune che circondano Saturno facendo di questo pianeta quasi un modello su piccola scala del Sistema Solare. Raccontò come erano finalmente atterrati sulla luna più interna, Mimas, che dista da Saturno solo metà di quanto la Luna disti dalla Terra.

«Scendemmo in una valle ampia, chiusa tra due montagne, dove eravamo convinti che il terreno fosse più che solido. Non volevamo ripetere l’errore commesso su Rea. Fu un atterraggio perfetto, e per uscire all’esterno ci infilammo nelle apposite tute. È strano come si è sempre impazienti di sbarcare, per quante volte si possa aver messo piede su un mondo nuovo.

«Mimas ha una bassa gravità, solo un centesimo di quella terrestre, ma sufficiente per evitarci di finire nello spazio. Quella di avanzare a balzi era un’esperienza che mi divertiva. Per quanto lungo e alto che fosse il balzo, si poteva stare sicuri che presto o tardi si finiva col ridiscendere, purché si avesse la pazienza di aspettare.

«Quando sbarcammo era mattino presto. Mimas ha le giornate un poco più brevi di quelle terrestri: compie il giro di Saturno in ventidue ore e mezzo. Come la Luna, Mimas ha il periodo di rivoluzione lungo quanto quello di rotazione, quindi offre al suo pianeta sempre la stessa faccia, o meglio, dal pianeta è possibile vederne sempre soltanto una faccia. Eravamo discesi nell’emisfero settentrionale, non lontano dall’equatore, e Saturno si trovava già molto sopra l’orizzonte. Aveva un aspetto veramente bizzarro, inquietante, una specie di montagna dalla curvatura assurda e alta migliaia di chilometri.

«Avrete certo visto i film che abbiamo girato, specialmente quello a colori che mostra, accelerato, un ciclo completo delle fasi di Saturno. Ma non credo che i film possano rendere perfettamente quello che significa vivere con quella sfera enorme sempre sospesa lassù nel cielo. È talmente grande che non si riesce a vederla tutta in una volta. Se ci si metteva di fronte e si allargavano le braccia si aveva l’impressione di poter toccare con la punta delle dita le estremità opposte degli anelli. Gli anelli veri e propri non si possono distinguere molto bene perché sono sottilissimi, data la loro posizione quasi verticale, ma è possibile individuarne la posizione dalla grande fascia d’ombra che gettano costantemente sul pianeta.

«Noi non ci stancavamo mai di guardare. Saturno ruota con tanta velocità, che il panorama muta continuamente. Le formazioni di nubi, ammesso che si trattasse effettivamente di nubi, sfrecciavano da un lato all’altro del disco in poche ore, trasformandosi di continuo nel loro fuggire. Ed avevano i colori più meravigliosi e incredibili. Ce n’erano di verdi, di viola, di gialle soprattutto. Di tanto in tanto si verificavano lente, enormi eruzioni, e dalle profondità si levava un fungo grande quanto la Terra che andava pigramente allargandosi in una macchia immensa che ricopriva metà pianeta.

«Era impossibile non guardare. Persino di notte, quando era completamente invisibile, se ne indovinava la presenza dalla grande porzione di cielo vuoto di stelle. A questo proposito voglio raccontarvi una cosa curiosa della quale non ho mai parlato ufficialmente perché non ne sono mai stato del tutto sicuro. Un paio di volte, mentre ci trovavamo nell’ombra del pianeta e il suo disco avrebbe dovuto essere completamente spento, ebbi l’impressione di vedere provenire dal suo lato notturno una debole luce fostorescente di brevissima durata, ammesso che ci fosse stata. Forse si trattava di qualche misteriosa reazione chimica in atto nel roteante pentolone.

"Vi sorprende che desideri tornare su Saturno? Questa volta mi piacerebbe potergli andare vicino per davvero, e per vicino intendo non più di mille chilometri. Dovrebbe essere una impresa sicura e non si dovrebbe consumare troppa energia. Basta entrare in un’orbita parabolica e poi lasciarsi cadere all’interno come una cometa che giri intorno al Sole. Certo non sarebbe possibile stargli vicino più di qualche minuto, ma anche in pochi minuti si può osservare molto.

«E voglio poi tornare su Mimas e rivedere ancora una volta quella immensa lucente mezzaluna che occupa metà cielo. Vale la pena di tare tutto quel lungo viaggio solo per osservare Saturno crescere e calare, e contemplare le tempeste che si inseguono intorno al suo equatore. Sì, ne varrebbe veramente la pena, anche se questa volta non dovessi tornare!»

Non c’era la minima retorica in quelle sue ultime parole. Era una semplice costatazione, e i compagni che lo ascoltavano non pensarono neppure per un attimo che Hilton volesse atteggiarsi a eroe da melodramma. Anzi, finché l’incanto durava, ognuno di loro si sentiva pronto a imitarlo.

Gibson mise termine al lungo silenzio seguito al racconto di Hilton, andando a scrutare la notte attraverso il finestrino della cabina.

«Possiamo spegnere le luci?» chiese. Il pilota acconsentì subito alla sua richiesta, e nel buio più fitto gli altri lo raggiunsero presso il finestrino.

«Guardate» disse Gibson. «Se allungate il collo riuscirete a vederlo lassù.»

La roccia contro la quale erano adagiati non era più un muro di oscurità assoluta, impenetrabile. Proprio sulla sua cima più alta brillava ora una luce nuova, che infiltrandosi nei crepacci dilagava giù a valle. Phobos si era arrampicato su da occidente e stava compiendo la sua ascesa verso sud, correndo alla rovescia per il cielo.

Di minuto in minuto la luce si faceva più intensa, e poco dopo il pilota cominciò a inviare i suoi segnali. Ma aveva appena iniziato, che la fievole luce lunare si spense improvvisamente strappando a Gibson un grido di sorpresa. Phobos era andato a immergersi nell’ombra di Marte, e nonostante che tosse tuttora in ascesa avrebbe cessato di brillare per quasi un’ora. Non era possibile dire se si sarebbe ancora affacciato sopra l’orlo della grande roccia venendo così a trovarsi nella posizione giusta per ricevere i segnali radio dell’apparecchio danneggiato.

Per quasi due ore i naufraghi aspettarono, sperando. A un tratto la luce riapparve sulle cime, ma brillava adesso da est. Phobos era emerso dalla sua eclissi e si stava buttando a capofitto verso l’orizzonte che avrebbe raggiunto in poco più di un’ora. Disgustato, il pilota chiuse la trasmittente.

«Non ce la facciamo» disse. «Dovremo tentare qualche altro mezzo.»

«Ho un’idea» disse Gibson. «Perché non proviamo a trasportare la trasmittente sulla cima della collina?»

«Ci avevo pensato anch’io, ma sarebbe già un’impresa tirarla fuori avendo gli attrezzi adatti, perché tutto è inserito dentro l’ossatura. Figuriamoci in queste condizioni!»

«Comunque sia, per stanotte non possiamo fare più niente» concluse Hilton. «Propongo che si dorma tutti fino a domattina all’alba. Io vi auguro buona notte.»

Un ottimo consiglio ma difficile da seguire. La mente di Gibson era in ebollizione, e seguitava a elaborare progetti per l’indomani. Solo quando Phobos si fu finalmente tuffato a oriente e la sua luce cessò di scherzare sulla roccia che li sovrastava, riuscì ad addormentarsi di un sonno inquieto.

12

Gibson si svegliò che l’alba era spuntata da un pezzo. Il Sole era ancora invisibile dietro le colline, ma i suoi raggi si riverberavano sulle rupi scarlatte e inondavano la cabina di una luce irreale, quasi sinistra. Si stirò. Era tutto indolenzito. Quei sedili non erano certo stati progettati per dormirci, in più lui aveva passato una notte assai agitata.

Si guardò attorno in cerca dei compagni. Hilton e il pilota erano scomparsi. Jimmy invece dormiva ancora profondamente. Gli altri due erano sicuramente usciti in esplorazione. Gibson si sentì un po’ offeso al pensiero di essere stato messo in disparte, ma capì che forse si sarebbe seccato ancora di più se gli avessero, interrotto il sonno.