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Hilton aveva appuntato alla parete della cabina, bene in evidenza, un breve messaggio. Diceva semplicemente: "Siamo usciti alle 6.30. Staremo fuori circa un’ora. Quando rientreremo avremo fame".

Impossibile non raccogliere l’appello implicito. D’altra parte anche lui aveva fame. Frugò nel pacco speciale d’emergenza che ogni apparecchio aveva a bordo per casi simili, chiedendosi per quanto tempo avrebbero dovuto attingervi e soprattutto sino a quando sarebbero durate le scorte.

I suoi tentativi per preparare una bevanda calda sul minuscolo bollitore a pressione svegliarono Jimmy. Il ragazzo fece una faccia mortificata quando si accorse di avere dormito più di tutti.

«Hai riposato bene?» gli chiese Gibson mentre cercava le tazze.

«Malissimo» rispose Jimmy riordinandosi i capelli con le mani. «Mi sento come se non dormissi da una settimana. Dove sono gli altri?»

Alla sua domanda rispose un rumore di passi: qualcuno stava entrando nel compartimento stagno. Un attimo dopo comparve Hilton seguito dal pilota. Si tolsero le maschere e le tute spaziali termiche, fuori la temperatura era tuttora sotto lo zero, e si precipitarono sulle tazze di cioccolata e le razioni di carne che Gibson aveva diviso in parti uguali.

«Allora?» chiese Gibson, con ansia. «Qual è il verdetto?»

«Una cosa possiamo dirtela subito» disse Hilton tra un boccone e l’altro. «Dobbiamo ritenerci straordinariamente fortunati di essere ancora vivi.»

«Questo lo so.»

«Lo sai soltanto a metà, perché non hai ancora visto dove siamo scesi. Prima di fermarci siamo filati parallelamente a quella roccia per quasi mille metri. Bastava uno sbandamento di un paio di gradi a destra, e addio! Quando abbiamo toccato il suolo abbiamo oscillato un po’ all’indietro, ma per fortuna non abbastanza da riportare danni.

«Ci troviamo in una valle lunga che corre da est a ovest. Più che di un antico letto di fiume ha tutto l’aspetto di un errore geologico, così a occhio e croce. La roccia che abbiamo di fronte è alta circa cento metri ed è praticamente verticale. Per essere esatti, in prossimità della cima si piega leggermente a uncino. Può darsi che con un po’ di buona volontà si possa scalarla, ma per il momento non abbiamo provato. Del resto non ce n’è bisogno. Se vogliamo che da Phobos ci vedano basterà che ci spostiamo un po’ a nord in modo che la roccia non si frapponga tra noi e loro. In realtà, credo che questo sia il sistema migliore, soltanto dovremmo riuscire a portare l’apparecchio in un luogo più scoperto, il che ci permetterà di usare la radio, e darà ai telescopi e alle ricerche dall’aria una maggiore possibilità di individuarci.»

«Quanto pesa?» chiese Gibson guardandosi in giro con aria preoccupata.

«Circa trenta tonnellate a pieno carico. Ma naturalmente c’è un sacco di roba inutile che possiamo togliere.»

«E invece non si può togliere niente» disse il pilota. «Significherebbe ridurre la nostra pressione, e non possiamo permetterci il lusso di sciupare aria preziosa.»

«Oh, Cielo, avevo dimenticato questo particolare. Comunque il terreno è piano e il carrello è in perfetto ordine.»

Gibson espresse i suoi dubbi con una serie di suoni molto simili a grugniti. Nonostante la bassa gravità, muovere l’aereo non doveva certo essere un’impresa facile.

La colazione, poco saporita ma sostanziosa, fu consumata in silenzio. I naufraghi rimuginavano ognuno per conto suo i più svariati progetti per la salvezza. Non erano seriamente preoccupati perché sapevano che li stavano cercando e che prima o poi li avrebbero trovati: era solo questione di tempo. Questo tempo però avrebbe potuto venire ridotto a poche ore se loro fossero riusciti a inviare un segnale a Phobos.

Dopo aver fatto colazione, tentarono di smuovere l’apparecchio. A furia di spinte riuscirono a spostarlo di cinque o sei metri. Poi i cingoli del carrello affondarono nel terreno molle, e nonostante tutti i loro sforzi il pesante apparecchio non si mosse più. Ansimanti, rientrarono in cabina a discutere sul da farsi.

«Abbiamo qualcosa di bianco, un po’ grande, da distendere sul terreno?» chiese Gibson.

L’idea era ottima ma fu stroncata sul nascere perché, dopo febbrili ricerche, riuscirono a raccogliere in tutto sei fazzoletti e pochi stracci unti d’olio di macchina. Dovettero ammettere che anche nelle condizioni più favorevoli una segnalazione ottica di dimensioni così limitate non sarebbe stata certamente visibile da Phobos.

«Ci resta una sola cosa da fare» disse Hilton. «Smontare le luci d’atterraggio, farle scorrere con un cavo fino oltre la roccia, e poi dirigerne il raggio su Phobos. Avrei preferito evitare questa soluzione se appena fosse stato possibile, chissà come si ridurrà l’ala ed è un vero peccato rovinare un così bell’aereo.»

Dalla faccia che fece, si capì che il pilota era esattamente del suo parere.

A un tratto a Jimmy venne un’idea brillante.

«Perché non costruiamo un eliografo?» disse. «Se riuscissimo a dirigere su Phobos i riflessi di uno specchio, credo che li vedrebbero.»

«A seimila chilometri di distanza?» disse Gibson scettico.

«Perché no? Hanno telescopi a oltre mille ingrandimenti. Voi non vedreste i riflessi del Sole in uno specchio anche a sei chilometri di distanza a occhio nudo?»

«Sono sicuro che nel tuo calcolo c’è un errore, anche se non saprei dirti di che errore si tratta» disse Gibson. «Nella vita reale i problemi non si risolvono mai così semplicemente. Però si può tentare. Vediamo un po’; chi ha uno specchio?»

Dopo un quarto d’ora di ricerche anche quel progetto venne abbandonato: nessuno aveva uno specchio.

«Potremmo tagliare via un pezzo d’ala e lucidarla» disse Hilton, pensoso. «Forse potrebbe servire.»

«L’ala è fatta di una lega al magnesio che non diventa lucida» disse il pilota, deciso a difendere il suo aereo fino all’ultimo.

Gibson scattò improvvisamente in piedi.

«Chi mi fa fare tre giri della cabina a calci?» disse.

«Io, con molto piacere» rispose Hilton ridendo. «Ma si può sapere perché?»

Senza rispondere Gibson andò in fondo alla cabina e si mise a frugare nel suo bagaglio voltando la schiena ai compagni incuriositi. Pochi secondi, poi si voltò di scatto e annunciò con un sorriso di trionfo: «Ecco la risposta.»

Un fiotto di luce accecante riempì la cabina proiettando sulle pareti ombre distorte. Fu come se la folgore avesse colpito l’apparecchio. Per un buon mezzo minuto tutti rimasero abbagliati, conservando nella retina l’immagine della cabina invasa dall’improvvisa incandescenza.

«Scusatemi» disse Gibson con aria contrita. «Non l’avevo mai usato a piena potenza. Così serve per fotografare di notte all’aperto.»

«Va’ al diavolo!» disse Hilton fregandosi gli occhi. «Ho pensato che fosse esplosa una bomba atomica. Ma c’è proprio bisogno di far morire la gente di paura, quando la fotografi?»

«Per uso normale, in un interno, è soltanto così» disse Gibson facendo seguire la dimostrazione. Tutti chiusero gli occhi, ma questa volta il lampo fu appena avvertibile. «È un aggeggio speciale che mi sono fatto costruire apposta prima di lasciare la Terra. Volevo essere sicuro di poter fotografare a colori anche di notte, se se ne fosse presentata l’occasione. Ma fino a questo momento non avevo avuto modo di usarlo.»

«Vediamo un po’» disse Hilton.

Gibson gli porse il flash e gli spiegò il funzionamento.

«È dotato di un condensatore superpotente. Ce n’è abbastanza per circa cento lampi, e adesso è praticamente a piena carica.»

«Per cento di questi lampi ad alto potenziale?»

«Sì. Se si tratta invece di lampi normali può arrivare fino ai duemila.»

«In questo condensatore dunque c’è energia elettrica sufficiente per fabbricare una bomba. Spero non si verifichi qualche dispersione.»