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Hilton stava esaminando la piccola valvola di scarico del gas, grande quanto una pallina, situata al centro del piccolo riflettore.

«È possibile regolare questo coso in modo da avere un raggio utile?» chiese.

«C’è un fermo dietro il riflettore… ecco, quello. Il raggio è alquanto largo comunque servirà lo stesso.»

Hilton aveva un’aria molto soddisfatta.

«Questo su Phobos dovrebbero vederlo anche in pieno giorno se guardano da questa parte con un buon telescopio. Però dobbiamo stare attenti a non sprecare i lampi.»

«Adesso Phobos è alzato, vero?» chiese Gibson. «Faccio immediatamente un segnale.»

Si alzò e si mise la maschera.

«Non fare più di dieci segnali» consigliò Hilton. «Dobbiamo conservare i lampi per la notte. E mettiti in una zona d’ombra.»

«Posso uscire anch’io?» chiese Jimmy.

«Come vuoi» disse Hilton. «Però state qui vicino, e non mettetevi in mente di andare in esplorazione. Io resto qui a vedere un po’ se si può fare qualcosa con le luci d’atterraggio.»

Il fatto di avere adesso un piano preciso di azione aveva notevolmente rialzato il morale dei quattro uomini. Stringendosi al petto la macchina fotografica e il prezioso flash, Gibson s’incamminò nella valle avanzando a balzi come una gazzella.

Era curioso come su Marte la forza muscolare si adattasse prontamente alla minore gravità, così che la gente procedeva a passi normali, come si fa sulla Terra. Le riserve d’energia, però, entravano immediatamente in gioco non appena la necessità lo richiedeva, o si era in un particolare stato di euforia,

Uscirono quasi subito dall’ombra della roccia, e poterono così spaziare con lo sguardo nel cielo. Phobos, già alto a occidente aveva la forma di una piccola mezzaluna che presto si sarebbe ridotta a una falce sottile. Gibson guardò il satellite chiedendosi se in quel momento qualcuno stesse osservando quella zona di Marte, il che dopotutto era assai probabile dato che la posizione approssimativa del loro atterraggio l’orzato doveva essere nota. Provò un desiderio irragionevole di mettersi a saltare e di agitare le braccia, di gridare: "Siamo qui! Possibile che non ci vediate?".

A un chilometro circa dall’aereo il terreno digradava lievemente, e nel tratto inferiore della valle si apriva una larga zona bruna ricoperta di erbe dall’alto stelo. Gibson andò in quella direzione seguito da Jimmy.

Si trovarono in mezzo a una vegetazione coriacea, di un genere che non avevano mai visto. Le foglie crescevano verticalmente dal terreno simili a esili stelle filanti, ed erano ricoperte di numerosi baccelli che avevano tutta l’aria di contenere semi. Il lato rivolto al Sole aveva una colorazione scura, quasi nera, mentre quello in ombra era di un bianco grigiastro. Un accorgimento semplice ma efficace per diminuire la dispersione di calore.

Senza perdere tempo in ragionamenti botanici, Gibson avanzò fino al centro della piccola foresta. Le piante non erano eccessivamente addossate le une alle altre, quindi era abbastanza facile avanzare. Quando gli parve di essersi inoltrato a sufficienza, alzò il flash e lo puntò in direzione di Phobos.

Il satellite si presentava ora come una sottile falce sullo sfondo del Sole, e Gibson si sentì un po’ ridicolo a dirigere lampi di luce proprio nella luminosità del cielo estivo. Invece il momento era ben scelto, perché il lato di Phobos rivolto verso di loro era in ombra, quindi i telescopi del satellite operavano in condizioni favorevoli.

Fece scattare dieci volte il flash al ritmo di due lampi consecutivi seguiti da una pausa. Gli parve il sistema più economico e al tempo stesso più efficace per far capire a un eventuale osservatore che si trattava di segnali intelligenti e non di fenomeni naturali.

«Per oggi basta così» disse poi. «Conserviamo il resto delle munizioni per quando farà buio. E adesso diamo un’occhiata a queste piante. Lo sai che cosa mi ricordano?»

«Alghe marine giganti» rispose pronto Jimmy.

«Bravo. Azzeccato. Chissà che cosa c’è in quei baccelli… Hai per caso un temperino? Grazie.»

Con la punta del temperino, Gibson forò una delle minuscole bacche nere. Evidentemente contenevano gas, e a pressione considerevole, perché mentre il coltello penetrava si sentì un debole fischio.

«Che strani» disse Gibson. «Prendiamone un campione da far vedere agli altri.»

Con qualche difficoltà staccò una lunga foglia tagliandola presso le radici. Dall’estremità recisa fluì un liquido denso, di colore scuro, che formava minuscole bollicine gassose. Con quel trofeo sulla spalla, Gibson prese la strada del ritorno.

In quel momento non sapeva di portare con sé l’avvenire di un mondo.

Percorsi pochi passi incontrarono una zona di vegetazione più fitta, e dovettero deviare. Avendo il Sole come guida non correvano pericolo di perdersi, perciò non si preoccuparono di ricalcare il cammino percorso in precedenza.

Gibson camminava in testa, ma procedeva con una certa fatica e stava già meditando di sacrificare l’orgoglio e chiedere a Jimmy di sostituirlo, quando notò con sollievo di essere arrivato a un sentiero serpeggiante che portava più o meno nella direzione giusta.

Per un eventuale osservatore quella sarebbe stata una interessante dimostrazione della lentezza di certi processi mentali. Gibson e Jimmy infatti percorsero un buon tratto, sei lunghi passi almeno, prima di rendersi conto della semplice ma strabiliante verità che i sentieri, di solito, non si tracciano da soli.

«I nostri due esploratori non dovrebbero essere già tornati?» disse il pilota ancora occupato assieme a Hilton a smontare i fari dal lato inferiore dell’ala dell’aereo. Il lavoro era andato abbastanza bene, e Hilton sperava di trovare a bordo dell’apparecchio un cavo sufficiente per portare i forti riflettori sufficientemente lontano dalla roccia in modo che fossero visibili da Phobos non appena il satellite fosse sorto di nuovo. Certo non avrebbero avuto la luminosità del flash di Gibson, ma i loro raggi immobili e costanti avevano più probabilità di essere notati.

«È molto che sono fuori?»

«Circa quaranta minuti. Spero che siano stati tanto intelligenti da non perdersi.»

«Gibson ha troppo buon senso per commettere imprudenze. Però non mi fiderei molto di Jimmy… Ha la fissazione di scoprire i Marziani!»

«Oh, eccoli. Hanno l’aria di avere molta fretta.»

Il fatto che Gibson e Jimmy tornassero dopo un tempo ragionevole rappresentava il trionfo della prudenza e del senso di autodisciplina.

Per un minuto buono avevano fissato sorpresi e increduli lo stretto sentiero serpeggiante tra le sottili piante brune. Sulla Terra niente sarebbe stato più banale: sembrava in tutto e per tutto un tipico sentiero tracciato dal passaggio del bestiame lungo i monti, o dagli animali selvatici in una foresta. Era stato proprio per il suo aspetto così familiare che non l’avevano notato subito, e anche quando avevano preso improvvisamente coscienza della realtà, avevano cercato di spiegarla con ragionamenti normali, terrestri, per così dire.

Gibson aveva parlato per primo, ma sottovoce, quasi nel timore che qualche misterioso essere invisibile potesse sentirlo.

«È un sentiero, Jimmy, un sentiero bello e buono! Chi può averlo tracciato, in nome di… Nessuno è mai stato qui, sinora.»

«Dev’essere stato qualche animale.»

«E parecchio grosso, anche.»

«Forse grosso quanto un cavallo.»

«O una tigre.»

Quest’ultima osservazione provocò un silenzio inquieto. Poi Jimmy aveva detto: «Be’, se tentasse di assalirci, credo che il vostro flash spaventerebbe qualsiasi mostro, per grosso che possa essere.»

«Bisognerebbe che avesse gli occhi» aveva obiettato Gibson. «E se invece fosse dotato di sensi completamente diversi dai nostri?»