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«Ne sono sicuro. Vedrai che saprà essere molto convincente.»

«Non vedo perché si dovrebbe interessare di noi.»

«Perché mi vuol bene» disse Jimmy con disinvoltura. «Sono sicuro che sarà d’accordo. Non è giusto che tu resti qui a vegetare su Marte senza aver mai conosciuto niente della Terra. Parigi… New York… Londra… Non si è vissuto veramente se non si conoscono queste città. Lo sai che cosa penso?»

«Dimmi.»

«Che tuo padre è molto egoista a tenerti qui.»

Irene parve contrariata. Era molto affezionata al padre e il suo primo impulso fu quello di difenderlo, ma ormai era divisa tra due affetti, e non c’era dubbio su quale dei due avrebbe vinto.

«Certo» aggiunse Jimmy accorgendosi di aver esagerato, «sono convinto che lui voglia il tuo bene, ma ha tante cose a cui badare. Forse ormai ha dimenticato com’è fatta la Terra, e non si rende conto di quello che tu stai perdendo. No, bisogna che tu te ne venga via di qui prima che sia troppo tardi.»

Irene sembrava indecisa. Alla fine le venne in soccorso il suo senso umoristico, assai più acuto di quello di Jimmy.

«Sono certa che se fossimo sulla Terra, e tu dovessi tornare su Marte, saresti capace di dimostrarmi con argomenti altrettanto convincenti che dovrei seguirti quassù!»

A tutta prima Jimmy si mostrò offeso, ma poi capì che Irene non si prendeva seriamente gioco di lui.

«Va bene» disse. «Questa faccenda è sistemata. Non appena vedrò Martin gliene parlerò e gli chiederò di convincere tuo padre. Per il momento non pensiamoci.»

Il piccolo anfiteatro tra le colline intorno a Porto Lowell era esattamente come Gibson lo ricordava, solo che il verde della lucida vegetazione era un po’ sbiadito come per effetto delle prime avvisaglie dell’autunno in realtà ancora lontano. La pulce si fermò davanti alla più grande delle quattro cupole e i due uomini si avviarono verso il compartimento stagno.

«Quando sono stato qui l’altra volta» disse Gibson, «mi è stato detto che avremmo dovuto disinfettarci prima di poter entrare.»

«Una piccola esagerazione per scoraggiare gli ospiti indesiderati» spiegò Hadfield, senza imbarazzo.

A un suo segnale, la porta esterna si aprì e subito i due si liberarono dei respiratori. «Al principio prendevamo queste precauzioni, ma adesso non sono più necessarie.»

Anche la seconda porta e la terza si aprirono lasciandoli passare nell’interno della cupola. Un uomo in camice bianco, il classico camice tutt’altro che immacolato, da sperimentatore, li stava aspettando.

«Salve, Baines» disse Hadfield. «Gibson, questo è il professor Baines. Probabilmente vi conoscete già di fama.»

I due uomini si strinsero la mano. Gibson sapeva che Baines era uno dei massimi esperti mondiali in fatto di genetica delle piante. Aveva letto su qualche giornale che da un paio d’anni si trovava su Marte per studiarne la flora.

«Dunque voi siete il terrestre che ha appena scoperto l’oxyfera» disse Baines con aria sognante. Era di corporatura massiccia, con la faccia cotta dalle intemperie, e un’aria distratta che contrastava bizzarramente con i lineamenti decisi e l’aspetto solido.

«È così che la chiamate?» disse Gibson. «Be’, credevo di averla scoperta io, ma comincio a dubitarne.»

«Voi comunque avete fatto una scoperta forse più importante» si affrettò a dire Hadfield. «Baines però non si interessa di animali, perciò è inutile parlargli dei vostri amici marziani.»

Intanto si erano avviati tra basse pareti grezze che dividevano la cupola in stanze e corridoi. Tutto aveva l’aria di essere stato costruito in gran fretta. Passarono accanto a complesse apparecchiature scientifiche posate su casse d’imballaggio. Ovunque si respirava un’aria di febbrile improvvisazione, ma, fatto strano, c’era pochissima gente al lavoro. Gibson ebbe la sensazione che, di qualunque cosa si fosse trattato, il lavoro svolto sotto quella cupola fosse ormai concluso, e che di tutto il personale non fossero rimasti che gli elementi indispensabili.

Baines li accompagnò al compartimento stagno che portava a un’altra cupola, e mentre aspettavano che l’ultima porta si aprisse, disse con la sua voce pacata: «Può darsi che adesso gli occhi vi facciano un po’ male.» Dopo queste parole, Gibson alzò una mano a fare da schermo.

La prima impressione che ricevette fu di luce accecante e di calore insopportabile. Fu come se, con un solo passo, fosse andato dal Polo ai Tropici. Dall’alto, potenti fari inondavano di luce la stanza semisferica. L’atmosfera era pesante, opprimente, e non a causa soltanto del caldo. Gibson si chiese che razza di aria stesse respirando.

La cupola non era suddivisa in locali ma era tutta un grande spazio circolare occupato da aiuole ordinate nelle quali crescevano tutte le piante marziane che Gibson aveva visto sino a quel momento, e parecchie altre. Circa un quarto della superficie del locale era ricoperto di alte foglie brune che Gibson riconobbe immediatamente.

«Dunque le conoscevate già?» disse, né sorpreso né particolarmente deluso. (Hadfield aveva ragione: i Marziani erano assai più importanti.)

«Sì» disse Hadfield. «Furono scoperte circa due anni fa e crescono abbondanti lungo la fascia equatoriale. Si sviluppano soltanto dove c’è molto sole, e la piccola foresta di Porto Schiaparelli è la più settentrionale che sia stata scoperta sinora.»

«Ci vuole parecchia energia per estrarre ossigeno dalla sabbia» spiegò Baines. «Noi le abbiamo aiutate con tutte queste luci, e abbiamo tentato alcuni esperimenti. Venite un po’ a vedere i risultati.»

Gibson si avvicinò all’aiuola stando bene attento a mantenere i piedi sul sentiero. Quelle piante non erano esattamente uguali a quelle scoperte da lui, per quanto fosse evidente che discendevano dal medesimo ceppo. La diversità più appariscente era data dalla scomparsa dei baccelli pieni di gas, sostituiti da miriadi di pori minutissimi.

«Questo è il punto più importante» spiegò Hadfield. «Siamo riusciti a ottenere una varietà di piante che libera l’ossigeno direttamente nell’aria dato che non ha più necessità di immagazzinarlo. Sino a quando ci saranno luce e calore sufficienti, la pianta riuscirà a estrarre tutto il suo fabbisogno di ossigeno dalla sabbia ed espellerà quindi il superfluo. Tutto l’ossigeno che state respirando in questo momento proviene da queste piante: non ne esiste altra fonte, sotto questa cupola.»

«Capisco» disse Gibson. «Avevate già avuto la mia idea, non solo ma siete anche andati parecchio avanti. Però non riesco ancora a capire il perché di tanto mistero.»

«Quale mistero?» disse Hadfield in tono d’innocenza offesa.

«Ma se mi avete appena chiesto di non dire niente» protestò Gibson.

«Ve l’ho chiesto soltanto perché tra pochi giorni verrà fatta una dichiarazione ufficiale, e non volevamo che se ne parlasse in maniera vaga e imprecisa. Ma in realtà non c’è nessun mistero.»

Gibson seguitò a rimuginare queste parole durante il ritorno a Porto Lowell. Hadfield gli aveva detto parecchio, ma gli aveva detto tutto? E se… se anche Phobos avesse fatto parte del quadro? Gibson si chiese se i suoi sospetti sulla luna interna fossero per caso infondati. Poteva anche darsi che Phobos non aves se alcun rapporto con quel progetto particolare. Gli venne la tentazione di mettere in imbarazzo Hadfield con una domanda diretta, ma poi rinunciò. Probabilmente se avesse tentato quel trucco, avrebbe fatto una pessima figura.

Le cupole di Porto Lowell comparivano già al limite dell’orizzonte bizzarramente convesso, quando Gibson affrontò l’argomento che lo tormentava da quindici giorni.

«L’Ares torna sulla Terra fra tre settimane, vero?» disse. Hadfield si limitò ad annuire con un cenno della testa. La domanda era del tutto retorica perché Gibson sapeva la risposta meglio di chiunque altro.

«Stavo pensando» riprese Gibson lentamente, «che mi piacerebbe trattenermi ancora un po’ su Marte. Magari fino all’anno venturo.»