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Lo scienziato si grattò la testa.

«È una bestiola veramente strana. Qualche volta ho addirittura la sensazione che ci prenda in giro. Fatto curioso, questo cucciolo è molto diverso dal resto del suo branco. Come sapete, abbiamo mandato una squadra a studiare gli altri nel loro habitat.»

«In che senso è diverso?»

«Gli altri, sino a questo momento almeno, non hanno dato alcun segno di emotività, e non dimostrano nemmeno la minima curiosità. Si può stare vicino a loro per ore e ore, e quelli vi girano attorno seguitando a mangiare senza neppure degnarvi di uno sguardo. Insomma, finché non date loro decisamente fastidio non si occupano affatto di voi.»

«E se vengono disturbati?»

«Cercano di spingervi via come se l’oste un ostacolo qualsiasi, e se non ci riescono, vanno da un’altra parte. Ma qualsiasi cosa facciate, non c’è verso di irritarli veramente.»

«Ma sono bonaccioni di natura, oppure decisamente stupidi?»

«Né l’una cosa né l’altra, direi. È tanto tempo che non hanno più nemici naturali che non riescono nemmeno a immaginare che qualcuno possa far loro del male. Ormai devono essere più che altro creature abitudinarie. La vita è talmente dura per loro che non si possono concedere il lusso costoso di essere curiosi o emotivi.»

«E allora come spiegate il comportamento di questo cucciolo?» chiese Gibson accennando a Quiicc che in quel momento gli stava frugando nelle tasche. «Non è che abbia fame veramente, gli ho dato da mangiare proprio adesso, quindi la sua dev’essere curiosità pura e semplice.»

«Si tratta probabilmente di una fase che attraversano mentre sono ancora giovani. Pensate alla diversità che passa tra un cucciolo di gatto e un gatto adulto, o tra un bambino e un adulto.»

«Perciò quando Quiicc sarà cresciuto, sarà uguale ai suoi genitori?»

«Forse, ma non possiamo dirlo con certezza. Non sappiamo quali capacità abbia di abituarsi al nuovo ambiente. Per esempio è bravissimo nel ritrovare la strada in un labirinto, una volta che lo si sia persuaso a tentare lo sforzo.»

«Povero Quiicc!» mormorò Gibson. «A volte provo un vero rimorso al pensiero di averti portato via dalla tua casa. Però l’hai voluto tu. Su, andiamo a fare una passeggiata.»

Quiicc non se lo fece ripetere due volte: corse subito verso la porta.

«Avete visto?» esclamò Gibson. «Capisce quello che gli dico!»

«Anche un cane si comporta nello stesso modo quando sente il richiamo del padrone. Può darsi che si tratti ancora una volta di una semplice questione di abitudine. Lo portate fuori ogni giorno alla stessa ora, e lui ci si è abituato. Ce lo riportate tra mezz’ora? Stiamo sistemando l’encefalografo per prendergli un encefalogramma.»

Quelle passeggiate pomeridiane erano una scusa per riconciliare Quiicc col suo destino e acquietare al tempo stesso la coscienza di Gibson. A volte si sentiva come un rapitore di bambini che avesse abbandonato la propria vittima subito dopo il ratto. Ma era tutto per amore della scienza, e i biologi avevano giurato che non avrebbero mai fatto alcun male al piccolo Quiicc.

Gli abitanti di Porto Lowell si erano ormai abituati a vedere la strana coppia passeggiare ogni giorno per le strade della cittadina, e la gente non si affollava più per vederli. Quando non era orario di scuola, Quiicc di solito raccoglieva intorno a sé un gruppo di giovani ammiratori che volevano giocare con lui, ma quel giorno era un po’ più presto del solito, e la popolazione infantile era ancora nel recinto scolastico. Insomma non c’era nessuno in vista, quando Gibson e il suo amico imboccarono la Broadway. Ma poco dopo comparve in lontananza la figura familiare di Hadfield in giro per la sua ispezione quotidiana, come sempre accompagnato dai suoi gatti.

Era la prima volta che Topazio e Turchese s’incontravano con Quiicc, e la loro calma aristocratica fu messa a dura prova. Fecero del loro meglio per dissimulare l’agitazione alla vista dello sconosciuto rivale, ma tirando il guinzaglio andarono a nascondersi dietro le gambe di Hadfield. Quiicc invece non li degnò neppure di un’occhiata.

«Che serraglio!» disse Hadfield ridendo. «Non credo che Topazio e Turchese siano molto contenti di avere un rivale. Da tanto tempo regnano qui soli e indisturbati, che credono che questo posto spetti soltanto a loro.»

«Ancora nessuna notizia dalla Terra?» domandò Gibson con una certa ansia.

«A proposito della vostra richiesta? Quanta premura! L’ho spedita soltanto due giorni fa. Sapete anche voi con quanta rapidità si muovono le cose laggiù. Passerà almeno una settimana, prima che si possa avere una risposta.»

La Terra era sempre laggiù. Gli altri pianeti erano sempre quassù. Questi avverbi di luogo suggerivano a Gibson un curioso quadro formato da un gran piano inclinato che portasse giù sino al Sole, con tutti i pianeti disposti lungo il percorso ad altezze diverse.

«Francamente non vedo che cosa c’entri la Terra» disse Gibson. «Dopo tutto non si tratta di un problema importante come potrebbe essere quello di stanziare le somme necessarie per la costruzione di nuove astronavi. Infine sono già qui, e se non torno risparmio loro un sacco di seccature!»

«Non potete immaginare come diventino complicati questi semplici argomenti dettati dal più elementare buonsenso per i grandi manipolatori della politica terrestre» disse Hadfield. «Eh, no, mio caro! La burocrazia dove la mettete? Lo sapete che ogni cosa deve seguire un suo iter burocratico?»

Gibson era convinto che Hadfield di solito non parlasse con quel tono sprezzante dei suoi superiori diretti, e provò quella particolare soddisfazione che si ha sempre quando ci è concesso di condividere una confidenza fatta spontaneamente. Era un nuovo segno che il Presidente si fidava di lui e lo giudicava un alleato. Se era così, perché non osare di parlargli dei due argomenti che in quel momento gli stavano tanto a cuore: il Progetto Aurora e Irene? Per quel che riguardava Irene aveva data la sua parola e bisognava che la mantenesse. Prima però voleva parlare con Irene direttamente… Sì, sarebbe stata un’ottima scusa per rimandare ulteriormente il colloquio con Hadfield, che non sarebbe stato né facile né piacevole.

Lo rimandò talmente che alla fine fu la stessa Irene a affrontare l’argomento direttamente, senza dubbio spinta da Jimmy che il giorno seguente informò Gibson sull’esito della conversazione tra padre e figlia. Dalla faccia di Jimmy fu facile capire quale fosse stato il risultato, prima ancora che il ragazzo parlasse.

La richiesta di Irene doveva essere stata un colpo duro per Hadfield, il quale era sicuramente convinto di aver sempre dato alla figlia tutto quanto lei potesse desiderare. Ne aveva quindi avuto il disinganno comune a tutti i genitori. Però aveva accolto la cosa con calma, e non c’erano state scene. Hadfield era un uomo troppo intelligente per assumere l’atteggiamento assurdo del padre offeso. Si era limitato a dare ragioni chiare e convincenti dell’impossibilità per Irene di andare sulla Terra prima di aver compiuto i ventun anni. Per quel giorno, aveva già deciso di rimpatriare per una lunga vacanza, durante la quale avrebbero fatto insieme il giro del vecchio mondo. Questo significava aspettare ancora tre anni.

«Tre anni!» si lamentò Jimmy. «È come dire tre secoli!»

Gibson comprendeva benissimo lo stato d’animo del ragazzo, ma cercò di fargli notare il lato positivo della situazione.

«In fondo non è poi un’eternità. E per quell’epoca tu avrai terminato i tuoi studi e sarai già in grado di guadagnare più di tanti altri della tua età. Vedrai come passa presto il tempo.»

Ma le parole consolatrici non dissiparono affatto la tetraggine di Jimmy. Gibson stava per aggiungere che per fortuna su Marte il tempo veniva ancora calcolato secondo il tempo terrestre, e non già secondo l’anno marziano che sarebbe stato di 687 giorni, ma non gli parve il caso, e si limitò invece a chiedere: