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«Naturalmente nel dissidio sono implicati molti fattori politici e personali, oltre che scientifici. Si dà poi il caso che il capo dei coloni sia uomo di tenacia inconsueta il quale non ha paura di nessuno, né su un pianeta né sull’altro. Inoltre è fiancheggiato da un gruppo di scienziati di prim’ordine i quali lo aiutano in ogni modo. Così il progetto viene messo allo studio, ma nessuno può dire se riuscirà o no. Mi rincresce di non potervi raccontare la fine della storia. Sapete anche voi come sono questi romanzetti a puntate: s’interrompono proprio nel momento più emozionante.»

«Credo che mi abbiate detto più o meno tutto» disse Gibson. «Tutto, cioè, tranne un piccolo particolare tutt’altro che trascurabile, perché ancora non so che cosa sia il Progetto Aurora.» Si alzò per accomiatarsi. «Domani tornerò per farmi raccontare l’ultima puntata del vostro interessantissimo romanzo.»

«Non ne avrete bisogno» disse Whittaker, e involontariamente diede un’occhiata all’orologio. «Prima di domani saprete tutto.»

Mentre lasciava il Palazzo dell’Amministrazione, Gibson fu rincorso da Jimmy.

«Dovrei essere al lavoro» disse il ragazzo, ansimando, «ma dovevo vedervi assolutamente. Sta succedendo qualcosa di molto importante.»

«Lo so» rispose Gibson quasi con impazienza. «Il Progetto Aurora è arrivato a maturazione e Hadfield ha lasciato la città.»

«Oh» fece Jimmy, un po’ mortificato. «Credevo che non lo sapeste. Ma c’è una cosa che non potete sapere certamente… Irene è sconvolta. Mi ha detto che ieri sera suo padre l’ha salutata come… come se ci fosse la possibilità che non la vedesse più.»

Gibson fece un fischio significativo. Questo poneva la situazione sotto una luce diversa. Dunque il Progetto Aurora non era soltanto una grossa impresa ma era anche una faccenda pericolosa. Non aveva pensato a quell’eventualità.

«Comunque vadano le cose» disse «domani sapremo. Me l’ha detto adesso Whittaker. Ma credo di capire dove si trovi Hadfield in questo momento.»

«Dove?»

«Su Phobos. Sono convinto che la chiave del Progetto Aurora è in quella piccola luna, ed è lì che potrai scovare il presidente, se è questo che t’interessa.»

Gibson sarebbe stato pronto a scommettere qualsiasi somma sulla sua supposizione, e fu una vera fortuna per lui che non ci fosse nessuno ad accettare la scommessa, perché in caso contrario avrebbe dovuto pagare. In quel momento Hadfield era ugualmente distante sia da Phobos sia da Marte. In quel preciso momento se ne stava infatti seduto alquanto scomodamente in una piccola astronave, zeppa di scienziati e di loro apparecchiature smontate in tutta fretta. Giocava a scacchi, e molto male, contro uno dei più insigni fisici del Sistema Solare. Anche il suo avversario del resto giocava malissimo, e chiunque avrebbe capito che gli scacchi erano solo un modo per passare il tempo. Come qualsiasi abitante di Marte, anche loro aspettavano. Loro però erano i soli a sapere esattamente che cosa.

Quel giorno interminabile, uno dei più lunghi vissuti da Gibson, si trascinò lentamente. Fu una giornata all’insegna delle chiacchiere e delle supposizioni. A Porto Lowell avevano tutti una loro teoria in proposito. Ma siccome quelli che sapevano la verità se ne stavano muti come pesci, mentre quelli che non sapevano niente gracchiavano come cornacchie, quando scese la notte la città si trovava in uno stato di confusione estrema. Gibson era incerto se restare alzato o meno, ma verso mezzanotte decise di andare a letto. Era profondamente addormentato nel momento in cui invisibilmente, silenziosamente, il Progetto Aurora raggiunse la sua fase finale. Soltanto gli uomini chiusi nella nave spaziale la videro attuarsi, e da bravi scienziati si trasformarono di colpo in scolari urlanti di gioia al pensiero di andare in vacanza.

Nelle primissime ore del mattino Gibson fu svegliato da un vigoroso colpo alla porta. Era Jimmy che gli gridò di alzarsi subito e di uscire. Si vestì in tutta fretta, ma quando fu pronto Jimmy era già in strada. Lo raggiunse davanti all’albergo. Da ogni parte arrivava gente. Tutti si fregavano gli occhi ancora pieni di sonno, e si chiedevano l’un l’altro che cosa fosse successo. Si udiva ovunque un brusìo di voci, e grida lontane. Porto Lowell aveva tutte le caratteristiche di un alveare nel quale fosse stato improvvisamente infilato un bastoncino.

Ci volle un minuto buono prima che Gibson capisse che cosa aveva svegliato la città. L’alba stava spuntando in quel momento: il cielo a est era rischiarato dai primi raggi del Sole nascente. A est? Gran Dio, ma il chiarore si stava diffondendo a ovest!

Gibson non era affatto superstizioso, ma per un attimo la sua mente fu sommersa da un’onda di pensieri irrazionali. Ma solo per un attimo. Subito la logica riprese il sopravvento. La luce che si allargava sull’orizzonte era sempre più luminosa. Poi i primi raggi toccarono le colline intorno alla città. Si muovevano in fretta, troppo in fretta per essere i raggi del Sole. E a un tratto una meteora dorata, fiammeggiante, si alzò sopra il deserto e salì verso lo zenith con moto quasi verticale.

Fu proprio la sua stessa velocità a tradirne la vera natura. Quello era Phobos, o meglio, quello che fino a poche ore prima era stato Phobos. Adesso invece era un giallo disco di fuoco, e Gibson poteva sentirne il calore sulla faccia. La città intorno a lui era ammutolita nella contemplazione del miracolo, conscia, anche se ancora confusamente, di ciò che quel miracolo avrebbe significato per Marte.

Ecco dunque il Progetto Aurora. Gli avevano dato un nome appropriato! Adesso finalmente tutte le tessere del mosaico combaciavano, però lo scopo primo non era ancora chiaro. Aver trasformato Phobos in un piccolo sole secondario era un prodigio di… di ingegneria nucleare, forse, ma Gibson non vedeva ancora come questo avrebbe contribuito a risolvere i problemi della colonia. Si stava tormentando con mille interrogativi, quando il sistema di altoparlanti di Porto Lowell, che veniva usato raramente, si svegliò all’improvviso e la voce di Whittaker riempì le strade.

«Buon giorno a tutti» disse la voce del maggiore. «Immagino che a quest’ora siate svegli e abbiate assistito a quanto è successo. Il Presidente è sulla via del ritorno dal suo viaggio interspaziale e vorrebbe parlarvi. Gli cedo il microfono.»

S’intese uno scatto metallico, poi qualcuno disse sottovoce: «Siete in comunicazione con Porto Lowell.» Un attimo dopo dagli altoparlanti uscì la voce di Hadfield. Era stanca ma trionfante: era la voce di un uomo che aveva combattuto una battaglia di importanza vitale e l’aveva vinta con tutti gli onori.

«Salve, amici» disse. «È Hadfield che vi parla. Mi trovo ancora nello spazio ma sto tornando da voi. Atterrerò fra un’ora. Spero che il vostro nuovo sole vi piaccia. Secondo i nostri calcoli dovranno trascorrere quasi mille anni prima che si spenga. Abbiamo bombardato Phobos quando era ancora molto basso rispetto al vostro orizzonte, per timore che la fase iniziale della irradiazione fosse troppo forte. La reazione si è ora stabilizzata al livello esatto che noi desideravamo, anche se potrà aumentare di qualche centesimo nella prossima settimana. Nel complesso si tratta di una reazione a risonanza mesonica, molto efficace ma non eccessivamente violenta, e dato il materiale che compone Phobos non c’è pericolo che si verifichi un’esplosione atomica vera e propria.

«Il vostro nuovo sole vi darà un decimo del calore solare, il che farà salire la temperatura di Marte a un livello quasi pari a quello della temperatura terrestre. Ma questa non è la ragione per la quale abbiamo bombardato Phobos, o perlomeno non è la ragione principale. Assai più che di calore Marte ha bisogno di ossigeno. Ebbene tutto l’ossigeno necessario a fornirgli un’atmosfera respirabile quasi quanto quella terrestre giace sotto i vostri piedi, imprigionato nella sabbia marziana. Due anni fa è stata scoperta una pianta che riesce a disintegrare la sabbia e a liberarne l’ossigeno. È una pianta tropicale che può esistere soltanto all’equatore e non dappertutto riesce a fiorire. Ma se ci fosse calore sufficiente, potrebbe propagarsi su tutta la superficie del nostro pianeta, naturalmente sollecitata dal nostro intervento, e fra cinquant’anni qui ci sarebbe un’atmosfera respirabile per l’uomo. È a questo che puntiamo, e quando avremo raggiunto lo scopo, potremo girare per Marte come ci parrà e piacerà senza bisogno di città incapsulate in cupole e maschere per respirare. È un sogno che molti di voi vedranno realizzato, e significherà che avremo dato un mondo nuovo al genere umano.