Gibson non si era mai reso pienamente conto sino a che punto fossero rossi i grandi deserti. Ma il semplice aggettivo rosso non dava un’idea esatta della multiforme gamma di sfumature che distinguevano il disco che ingrandiva lentamente. Alcune regioni apparivano quasi scarlatte, altre erano d’un giallo rossiccio, mentre la tinta forse più diffusa era quella che solitamente va sotto il nome di rosso mattone.
Nell’emisfero meridionale era primavera inoltrata, e la calotta polare era ridotta a pochi luccicanti puntini candidi là dove la neve indugiava ancora, cioè sulle alture più elevate. La vasta fascia di vegetazione tra il polo e il deserto era per la maggior parte di un verde bluastro, sfuocato. Su quel disco variegato era possibile trovare le più impensabili sfumature di colore.
L’Ares stava avanzando entro l’orbita di Deimos a una velocità relativa inferiore ai mille chilometri orari. Dinanzi all’astronave, la piccola luna era già perfettamente visibile, e con il trascorrere delle ore crebbe tanto che, vista a poche centinaia di chilometri di distanza, sembrava grande quanto Marte. Ma quale contrasto col pianeta principale. Lì, niente rossi né verdi opulenti, bensì un nero caos di rocce accatastate alla rinfusa, di montagne a picco svettanti verso le stelle in ogni senso, in un triste universo di gravità praticamente nulla.
Lentamente le rocce aguzze scivolarono di fianco a loro mentre l’Ares si dirigeva sicura verso il radiofaro di cui Gibson aveva udito il segnale alcuni giorni prima.
Poco dopo, a pochi chilometri sotto di sé, lungo una zona quasi livellata, Gibson vide i primi segni che rivelavano il passaggio dell’uomo su quel mondo desolato. Due file di pilastri verticali si alzavano dal suolo, e tra questi si intersecava tutta una fitta rete di cavi. Quasi impercettibilmente l’Ares calò verso Deimos. I razzi principali erano stati spenti da parecchio perché il peso della nave era ormai ridotto a poche centinaia di chili.
Non fu possibile avvertire con esattezza l’attimo del contatto: solo l’improvviso silenzio quando i propulsori ausiliari vennero spenti segnalò a Gibson che il viaggio era terminato e che l’Ares si riposava finalmente nella culla che le avevano preparata. Mancavano ancora ventimila chilometri per arrivare a Marte, e lui avrebbe raggiunto il pianeta soltanto il giorno successivo con uno dei piccoli razzi appositamente adibiti al collegamento fra il pianeta e il suo satellite, e che già si apprestava a raggiungerli. Ma per quello che riguardava l’Ares, la traversata era finita.
Lasciò il ponte d’osservazione e si affrettò verso la cabina di comando, che in quelle ultime ore di lavoro intenso aveva evitato di proposito. Non era più tanto facile muoversi nell’interno dell’Ares, poiché la forza gravitazionale di Deimos, per quanto debole, era sufficiente a disturbare i movimenti ai quali si era abituato. L’equipaggio era riunito al tavolo delle carte di navigazione e tutti avevano l’aria contenta e soddisfatta.
«Sei arrivato giusto in tempo, Martin» gli gridò Norden in tono d’allegria. «Ci stiamo preparando a un piccolo festeggiamento. Vai a prendere la tua macchina fotografica e divertiti pure a far fotografie mentre noi berremo un goccio alla salute della nostra vecchia caravella!»
«Ehi, mi raccomando, non vi scolate tutto mentre non ci sono io!» ammonì Gibson e filò via in cerca della sua Leica. Quando rientrò il dottor Scott stava tentando un esperimento interessante.
«Sono stufo di sorbire la mia birra da un recipiente a forma di bulbo» spiegò. «Voglio cercare di versarla come si conviene in un bicchiere vero, adesso che ne abbiamo di nuovo la possibilità.»
«Si appiattirà prima di arrivare al fondo» lo avvertì Mackay. «Un momento, lasciami pensare. G equivale a circa mezzo centimetro secondo per secondo… Tu versi da un’altezza di…» Si concentrò in un silenzio denso di meditazione.
Ma l’esperimento era già in atto. Scott stava reggendo la latta di birra forata a un’altezza di circa trenta centimetri dal bicchiere, e per la prima volta in tre mesi la parola altezza acquistò valore, anche se irrilevante. Sia pure con incredibile lentezza, il liquido ambrato colò dalla latta, tanto lentamente che lo si sarebbe potuto scambiare per sciroppo. Un’esile colonna si allungò verso il basso, colando dapprima con moto quasi impercettibile, quindi con lenta accelerazione. Sembrò che passasse un tempo incalcolabile prima che la birra riuscisse finalmente a raggiungere il fondo del bicchiere, e non appena si verificò il primo contatto, e il livello del liquido prese a salire, da tutti i presenti si levò un evviva fragoroso.
Gibson si diresse al suo posto preferito, sul ponte di osservazione.
Marte era di fronte a lui. Certo laggiù fervevano i preparativi per riceverli, e i minuscoli razzi dovevano essere già partiti. In quel momento stavano probabilmente arrancando invisibili verso Deimos per poi traghettarli sul pianeta. A 14.000 chilometri in basso, ma sempre a 6.000 chilometri sopra Marte, Phobos stava passando davanti alla faccia in ombra del pianeta. Gibson si chiese con un senso quasi di timore che cosa stesse succedendo sulla piccola luna. Be’, presto l’avrebbe saputo. Intanto avrebbe dato una rispolverata alla sua aerografia. Ecco: quella era la biforcazione del Sinus Meridiani (facilissimo da individuare, dato che si trovava giusto sull’equatore e a longitudine zero), e quella laggiù a oriente la Sirte Maggiore. Quel giorno il Margaritifer Sinus si distingueva benissimo, ma che cumulo di nubi c’era su Xanthe e…
«Signor Gibson!»
Si girò di scatto, quasi con un sussulto.
«Oh, Jimmy! Ne hai avuto abbastanza anche tu?»
Il ragazzo era rosso in faccia e appariva accaldato: evidentemente era venuto anche lui in cerca di una boccata d’aria fresca. Un po’ malfermo sulle gambe, si sedette a fatica nella sua solita nicchia e per un attimo fissò Marte in silenzio, come se lo vedesse per la prima volta. Infine scosse la testa con aria di disapprovazione, e senza rivolgersi ad alcuno in particolare sentenziò: «È troppo grande!»
«Ma se è molto più piccolo della Terra!» protestò Gibson.
«Può darsi, ma è troppo grande. Tutto è troppo grande.»
La conversazione minacciava di girare in tondo senza alcun costrutto. Gibson prese una decisione: cambiare argomento.
«Che cosa hai intenzione di fare quando sarai su Marte? Dovrai trovare il modo d’impiegare un paio di mesi prima che l’Ares torni a casa!»
«Mah! Forse farò delle escursioni intorno a Porto Lowell e andrò ad ammirare un po’ i deserti. Mi piacerebbe fare qualche piccola esplorazione.»
Gibson trovò che il progetto era molto interessante, ma sapeva che esplorare Marte con una certa ampiezza di raggio non era un’impresa facile. E non era molto probabile che Jimmy potesse unirsi alle spedizioni scientifiche che di tanto in tanto si allontanavano dalle località abitate.
«Ho un’idea» disse. «A quanto pare hanno l’intenzione di farmi vedere tutto quello che voglio. Può darsi che riesca a organizzare qualche gita a Hellas o ad Esperia, dove non c’è ancora andato nessuno. Ti piacerebbe venire con me? Potremmo incontrare qualche Marziano.»
Naturalmente quella dei Marziani era la storiella che circolava tra gli abitanti della Terra sin dal tempo in cui erano tornate le prime astronavi con la deludente notizia che il pianeta gemello era completamente disabitato. Tuttavia parecchi erano ancora fermamente convinti, malgrado tutte le prove contrarie, che in qualche angolo dei monti ancora inesplorati del pianeta si annidasse qualche forma di vita intelligente.