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«Già» disse Jimmy, «sarebbe davvero magnifico. Comunque nessuno potrà impedirmi di fare quello che voglio, perché quando sarò su Marte avrò a mia disposizione tutto il tempo che mi parrà e mi piacerà. C’è sul contratto.»

Seguirono alcuni minuti di silenzio. Poi Jimmy cominciò a staccarsi con estrema lentezza dal finestrino d’osservazione e a scivolare lungo le paratie in pendenza della nave. Gibson lo acchiappò al volo prima che si allontanasse troppo, e lo assicurò al sedile con due solide maniglie elastiche in modo che il ragazzo potesse dormire tranquillamente. Era troppo stanco per trascinarlo fino alla sua cuccetta.

Il giorno seguente Gibson fu risvegliato da un frastuono infernale. Pareva che l’Ares stesse cadendo a pezzi. Si affrettò a vestirsi e a uscire nel corridoio. La prima persona che vide fu Mackay, il quale gli urlò con quanto fiato aveva in gola, mentre si allontanava di corsa: «Sono arrivati í razzi! Il primo riparte fra due ore! Dovresti spicciarti… Credo che ti manderanno su con quello!»

Perplesso, Gibson si grattò la fronte.

«Qualcuno avrebbe anche potuto avvertirmi» borbottò. Poi si ricordò che in realtà l’avevano avvertito, quindi doveva rimproverare soltanto se stesso se non era ancora pronto. Tornò di corsa in cabina e si mise a fare frettolosamente le valigie. Ogni tanto l’astronave era scossa da un forte tremito intenso che si trasmetteva al suo corpo. Gibson era curiosissimo di sapere cosa stesse succedendo.

Davanti al compartimento stagno incontrò Norden. Il capitano aveva l’aria stanca. Con lui c’era il dottor Scott, già equipaggiato per la partenza, il quale reggeva tra le mani, con precauzione estrema, una massiccia cassetta di metallo.

«Vi auguro di fare una traversata magnifica» disse Norden. «Ci rivedremo tra un paio di giorni, non appena avremo sbarcato tutto il carico, perciò sino a quel momento… Oh, quasi me ne dimenticavo! Mi hanno detto di farti firmare questa roba.»

«Che cos’è?» chiese Gibson in tono sospettoso. «Io non firmo mai niente che non sia stato preventivamente approvato dal mio editore.»

«Leggi e vedrai» disse Norden ridendo. «È un documento storico.»

E così dicendo gli tese una pergamena su cui c’era scritto:

"CON IL PRESENTE DOCUMENTO SI CERTIFICA CHE MARTIN M. GIBSON, SCRITTORE, È STATO IL PRIMO PASSEGGERO A VIAGGIARE SULLA NAVE SPAZIALE ARES, DURANTE IL VIAGGIO INAUGURALE DALLA TERRA A MARTE".

Seguivano la data e uno spazio vuoto per le firme di Gibson e degli altri componenti dell’equipaggio. Gibson firmò.

«Immagino che questo papiro andrà a finire un giorno o l’altro in qualche Museo d’Astronautica, quando si decideranno a costruirne uno» disse.

Per la seconda volta Gibson s’infilò una tuta spaziale. Gli pareva d’essere ormai un veterano di simili avventure.

«Naturalmente tu comprendi benissimo» gli spiegò Scott «che quando il servizio sarà organizzato in modo regolare raggiungeranno il traghetto attraverso un tunnel di collegamento. Altrimenti, con questo sistema nessuno si muoverebbe più di casa e per la società sarebbe il fallimento sicuro.»

«Perderanno però un’esperienza interessantissima» disse Gibson mentre eseguiva un rapido controllo dei manometri disposti sul piccolo quadro comandi della tuta.

Di fronte a loro si aprì il portello esterno, e gli uomini vennero lentamente proiettati fuori, sulla superficie di Deimos. L’Ares, trattenuta entro la sua culla di funi (che dovevano essere state preparate in tutta fretta durante la settimana precedente), sembrava assalita da una intera squadra di smantellatori. Finalmente Gibson capiva la ragione dei colpi assordanti e del frastuono che l’avevano svegliato. Quasi tutta la rivestitura metallica dell’Emisfero Meridionale era stata rimossa per permettere di entrare nella stiva, e i membri dell’equipaggio, in tuta, erano adesso impegnati a sbarcare il carico che veniva via via ammucchiato sulle rocce intorno alla nave.

A cinquanta metri dall’Ares si dondolavano i due piccoli razzi alati giunti da Marte durante la notte. Nel primo si stava già procedendo al carico della merce, mentre il secondo, molto più piccolo, era evidentemente destinato al trasporto dei passeggeri. Mentre si avvicinava al traghetto seguendo Scott con lentezza e cautela, Gibson si sintonizzò sulla lunghezza d’onda normale per dare un ultimo saluto ai suoi compagni di viaggio.

Gli fece un effetto curioso vedere finalmente una faccia nuova. Il pilota del razzo entrò nel compartimento stagno per aiutarli a togliersi le tute che vennero poi deposte con cura sul suolo di Deimos per essere riutilizzate in un’altra occasione. Quindi li accompagnò nella minuscola cabina e li consigliò di sdraiarsi sui sedili imbottiti.

«Siccome siete vissuti per un paio di mesi in regime di non gravità» disse «cercherò di portarvi su il più piano possibile. Mi servirò soltanto della normale gravità terrestre, ma vi avverto che anche così sembrerà di pesare una tonnellata. Siete pronti?»

«Sì» rispose Gibson, cercando di non pensare all’esperienza precedente.

Si udì un rombo sommesso, lontano, e qualcosa lo premette in giù e lo tenne saldamente ancorato al suo sedile. Le rocce e le montagne di Deimos scomparvero rapidamente e Gibson ebbe appena il tempo di cogliere un’ultima visione fuggevole dell’Ares, lucido manubrio d’argento contro un ossessionante incubo di cime vertiginose.

Era bastato uno scoppio d’energia della durata di un secondo per strapparli alla forza d’attrazione della piccola luna, e adesso galleggiavano intorno a Marte in caduta libera. Per vari minuti il pilota studiò gli strumenti mentre riceveva istruzioni via radio dal pianeta sottostante e azionava i giroscopi. Quindi inserì di nuovo il contatto dell’accensione e i razzi ripresero a tuonare per qualche secondo. La navicella era uscita dall’orbita di Deimos e adesso scendeva verso Marte. Tutta l’operazione era stata una replica esatta, in miniatura, di un vero e proprio viaggio interplanetario. Erano cambiati soltanto i tempi e le durate: avrebbero impiegato tre ore anziché tre mesi a raggiungere la loro meta, e invece di milioni di chilometri ne dovevano percorrere soltanto qualche migliaio.

«Dunque» disse il pilota chiudendo i comandi e girandosi sul sedile. «Com’è andato il viaggio?»

«Ottimamente, grazie» rispose Gibson. «Certo non abbiamo avuto molte distrazioni: tutto è andato liscio come l’olio.»

«Come ve la passate su Marte di questi tempi?» domandò Scott.

«Al solito. Molto lavoro e poco svago. La novità del giorno è la nuova cupola che stanno costruendo a Lowell. Trecento metri di diametro. Quasi quasi si riesce a immaginare di essere ancora sulla Terra. Stanno studiando per vedere se è possibile crearvi piogge e nubi artificiali.»

«Che cos’è tutto questo pasticcio di Phobos?» chiese Gibson, sempre in caccia di notizie. «Ci ha procurato un sacco di noie.»

«Niente di grave. Di preciso non sa niente nessuno, tranne che in questo momento lassù c’è un sacco di gente a costruire un laboratorio gigante. La mia impressione è che Phobos sia destinato a restare puramente una stazione di ricerche, e perciò non vogliono avere un continuo movimento di va e vieni che disturberebbe i loro strumenti a causa delle radiazioni connesse al traffico di astronavi e razzi.»

Marte si trovava ormai a meno di duemila chilometri di distanza, e Gibson dedicò tutta la sua attenzione al panorama sottostante che andava allargandosi sotto i suoi occhi. Ora stavano passando rapidamente sopra l’equatore, e si abbassavano entro gli strati esterni dell’atmosfera del pianeta. A un tratto, e non fu possibile cogliere il momento esatto, Marte cessò di essere un corpo celeste fluttuante nello spazio e diventò un mondo, anche se ancora lontano, con un suo paesaggio nettamente distinguibile. Sotto di loro fuggivano deserti e oasi: la Sirte Maggiore comparve e disparve prima che Gibson avesse il tempo di riconoscerla. A cinquanta chilometri d’altezza ebbero la prima avvisaglia che l’atmosfera intorno a loro si stava infittendo. Un sospiro lontano, debolissimo, che non aveva un preciso punto d’origine, riempì la cabina. L’aria rarefatta si aggrappava con esili dita al missile che filava a velocità incredibile, ma la sua forza stava aumentando rapidamente, e in caso di navigazione difettosa sarebbero stati guai. Gibson avvertì gli effetti della decelerazione a mano a mano che la navicella riduceva la propria velocità, e il sibilo dell’aria era divenuto ora così impetuoso, che lo si udiva anche attraverso le paratie insonorizzate, e nella cabina non sarebbe stato facile sentirsi parlando in tono normale.