Certo, pensò subito Gibson, un poco pentito per essersi lasciato andare così, George doveva considerare la sua richiesta alquanto insensata. Ma si sbagliava: George aveva avuto tante volte quella richiesta da considerarla ormai naturalissima. Dopo tutto il suo mestiere consisteva nell’assecondare i desideri dei clienti, e tutti i nuovi arrivati, dopo qualche giorno passato sotto la cupola, provavano lo stesso desiderio. Il barista si strinse nelle spalle con filosofia, e disparve nel suo misterioso retro-bar per tornarne quasi subito con due maschere a ossigeno e relativi accessori.
«Con una bella giornata come questa non avremo bisogno di tutti gli altri aggeggi strani» disse, mentre Gibson si sistemava la maschera con gesti goffi. «Assicuratevi bene che il tubo di gomma giri esattamente intorno al collo. Benissimo, così. Andiamo. Ma per non più di dieci minuti, mi raccomando!»
Gibson lo seguì pronto come un cane pastore segue il padrone, fino all’uscita della cupola. In quel punto c’erano due compartimenti stagni, il primo, lungo e largo, portava alla Cupola Due, il secondo, più piccolo, sboccava all’aperto. Era un semplice condotto metallico, del diametro di tre metri circa, che conduceva all’esterno attraverso il muro di vetrocemento che ancorava al suolo il flessibile involucro di materiale plastico di cui era fatta la cupola.
Nel condotto c’erano tre porte sistemate a distanza regolare, nessuna delle quali poteva essere aperta se le altre due non erano ben chiuse. A Gibson parve che passassero ore prima che l’ultima porta si aprisse davanti a lui rivelandogli la scintillante pianura verde. La pelle esposta all’aria rarefatta bruciava per la pressione ridotta, però l’atmosfera era sufficientemente calda, e in breve lui si sentì del tutto a suo agio. Completamente dimentico di George si tuffò in quel basso, denso mare vegetale, chiedendosi mentre procedeva, per quale ragione si stringesse così fittamente intorno alla cupola. Forse la vegetazione era attratta dal calore, forse anche dalla debole fuoriuscita dell’ossigeno che inevitabilmente filtrava sia pure in piccolissime quantità dall’interno della cupola.
Dopo poche centinaia di metri si fermò sentendosi finalmente liberato dall’oppressione della cupola. La sua testa era anche adesso completamente chiusa in una specie di scatola, ma questo non aveva molta importanza. Si chinò a osservare le piante che gli arrivavano al ginocchio.
Aveva già visto numerose fotografie di piante marziane. In realtà non avevano niente di straordinario, e la sua cultura botanica era troppo limitata perché lui potesse apprezzarne le caratteristiche. A dire il vero, se si fosse imbattuto in piante come quelle in qualche angolo sperduto della Terra, forse non le avrebbe degnate neppure di un’occhiata. Nessuna gli arrivava oltre la cintola, e quelle che crescevano lì attorno sembravano fatte di lucidi fogli di pergamena verde, sottilissimi ed estremamente resistenti, ed erano foggiate in modo da captare quanta più luce solare possibile senza perdere il loro prezioso contenuto d’acqua. A Gibson sarebbe piaciuto qualche fiore che desse un tocco di colore contrastante a tutta quella massa uniforme di verde smeraldo, ma su Marte non esistevano fiori.
Forse ce n’erano stati, tanto tempo prima, quando l’atmosfera era sufficientemente densa da sostenere il volo degli insetti. Ora la riproduzione avveniva senza fecondazione.
George lo raggiunse e rimase lì a contemplare il panorama con indifferenza. A un tratto si scosse dai suoi pensieri per dire a Gibson con voce esile ma ancora chiaramente udibile a quella breve distanza: «Questo sì che è divertente! State fermo per favore e osservate quella pianta coperta dalla vostra ombra.»
Gibson obbedì alla bizzarra ingiunzione. Per un attimo non accadde niente. Poi vide che con estrema lentezza i fogli di pergamena si piegavano gli uni sugli altri. L’intero processo si svolse in circa tre minuti, al termine dei quali la pianta si era trasformata in una palla di carta verde, tutta spiegazzata e ridotta a un quarto delle sue dimensioni normali.
«Crede che sia notte» disse George, ridendo. «Se adesso vi muovete ci penserà su almeno mezz’ora prima di decidersi a riaprire bottega. Se seguitaste con questo trucco per tutta la giornata finireste col provocarle un esaurimento nervoso!»
«Queste piante servono a qualcosa?» chiese Gibson. «Intendo dire, sono commestibili oppure contengono qualche sostanza chimica importante?»
«Commestibili no di sicuro, perché anche se non sono velenose possono procurare disturbi gravi. Vedete, in realtà non hanno niente delle piante terrestri. Il loro verde è una semplice coincidenza. Non si tratta di… come si chiama quella roba?»
«Quale? La clorofilla?»
«Appunto. Non hanno bisogno di aria come le nostre piante, e tutto quello che serve lo prendono dal suolo. Infatti potrebbero benissimo crescere nel vuoto assoluto, come le piante della Luna, purché avessero un terreno adatto e luce solare a sufficienza.»
Un vero trionfo dell’evoluzione, pensò Gibson. Ma a quale scopo?, si chiese. Perché la vita si era aggrappata con tanta tenacia a quel piccolo mondo, nonostante tutto il male causatole dalla natura? Forse il Capo Supremo marziano aveva tratto una parte del suo ottimismo dalla lezione impartita da quelle piantine ostinate e risolute.
«Andiamo» disse George. «È ora di tornare.»
Gibson lo seguì docilmente. Non si sentiva più oppresso dal senso di claustrofobia che l’aveva angustiato prima. Coloro che si erano trasferiti su Marte per svolgervi un lavoro preciso e non avevano avuto quindi il tempo per immalinconirsi, probabilmente avevano superato quello stadio senza accorgersene. Lui invece era stato mandato lì apposta per raccogliere le proprie impressioni, e per il momento l’impressione dominante era un senso di smarrimento e d’impotenza, se confrontava il pochissimo che sino a quel momento l’uomo era riuscito a fare su Marte con gli smisurati problemi che ancora andavano risolti. Per cominciare, tre quarti del pianeta erano tuttora inesplorati. E questo dava in un certo senso la misura di quello che ancora restava da fare!
I primissimi giorni a Porto Loweìl erano stati per lui densi di emozioni e sensazioni nuove. La domenica, la passò col maggiore Whittaker il quale impiegò il suo tempo libero per accompagnarlo personalmente nel giro della città. Avevano cominciato dalla Cupola Uno, la prima a essere stata costruita, e il maggiore gli aveva descritto con orgoglio l’espandersi della cittadina (fondata da soli dieci anni) da un primo nucleo di baracche pressurizzate. Era divertente, e anche commovente notare che i coloni avevano usato, ovunque era stato possibile, i nomi familiari di strade e di piazze delle loro lontanissime città natali. C’era anche un sistema scientifico di numerazione delle strade, a Porto Lowell, ma nessuno se ne serviva mai.
La maggior parte delle case d’abitazione erano strutture uniformi in metallo, a due piani, dagli angoli arrotondati e con le finestre piuttosto piccole. In ognuna alloggiavano due famiglie, e non offrivano molto spazio, perché a Porto Lowell il tasso di natalità era il più alto di tutto l’universo, il che non doveva stupire, dato che la quasi totalità della popolazione oscillava tra i venti e i trent’anni al massimo, con qualche rara punta di quaranta per alcuni dirigenti amministrativi. Ogni casa aveva un bizzarro portico che incuriosì molto Gibson finché non gli spiegarono che in caso d’emergenza poteva funzionare da compartimento stagno.
Per prima cosa Whittaker l’aveva portato alla sede degli uffici, il principale e più alto edificio della città. Dal suo tetto si poteva, allungando una mano, toccare la cupola che gli si incurvava sopra. L’Amministrativo, come lo chiamavano, non offriva in sé niente d’interessante: era identico ai tanti palazzi d’amministrazione che si costruiscono sulla Terra, pieno di file di scrivanie, di macchine da scrivere e di schedari d’archivio.