«Ma questo è un impianto in piena regola» disse lo scienziato, sempre più sorpreso, mentre si sistemava la maschera. «Avranno certamente avuto le loro buone ragioni per spendere chissà quanto. Aspettate qui che io vado a dare un’occhiata.»
Lo videro scomparire nel compartimento stagno della cupola principale e agli impazienti passeggeri parve che la sua assenza si prolungasse per un tempo lunghissimo. Infine videro la porta esterna riaprirsi e la loro guida uscirne e avviarsi lentamente verso di loro.
«Allora?» domandò Gibson mentre il giovane risaliva sull’automezzo. «Cosa vi hanno detto?»
Il geologo non rispose. Senza parlare avviò il motore, e la pulce del deserto cominciò a muoversi.
«Be’? E la tanto decantata ospitalità marziana?» protestò Mackay.
«Non ci hanno invitati a entrare?»
Il geologo sembrava estremamente impacciato. La sua faccia aveva l’espressione di chi si è reso conto di aver commesso una fesseria. Almeno così parve a Gibson. Il giovane si schiarì nervosamente la voce.
«È una stazione di ricerche» disse, cercando accuratamente le parole. «È poco che l’hanno impiantata, e per questo io non ne sapevo niente. Non possiamo entrare perché tutto è completamente sterilizzato, e non vogliono correre il rischio che i visitatori portino dentro delle spore. Avremmo dovuto cambiarci da capo a piedi e fare un bagno nel disinfettante.»
«Capisco» disse Gibson. Qualcosa gli diceva di non insistere con le domande. Grazie al suo infallibile intuito aveva capito che la sua guida gli aveva detto solo una parte della verità, e la meno importante. In quel momento tutti i dubbi che si erano accumulati nella sua mente si riproposero alla sua attenzione. Tutto era cominciato ancora prima del suo arrivo su Marte, era cominciato con il dirottamento dell’Ares da Phobos. E adesso era andato a inciampare in questa stazione segreta di ricerche. Era stata una sorpresa non soltanto per loro ma persino per il geologo che pure si vantava di essere al corrente di tutto quello che succedeva sul pianeta, e che ora cercava, in modo davvero commovente, di rimediare alla sua involontaria indiscrezione.
Qualcosa stava bollendo in pentola. Che cosa, Gibson non poteva immaginarlo, ma doveva essere certamente qualcosa di grosso perché interessava non soltanto Marte ma anche Phobos. Era qualcosa che la maggior parte dei coloni ignorava, e che si affrettava a tenere nascosta non appena ne veniva involontariamente a conoscenza.
Marte dunque nascondeva un segreto. E a chi lo teneva nascosto se non alla Terra?
10
Il Grand Hotel marziano aveva ora ben due residenti, il che imponeva al suo personale improvvisato uno sforzo non comune. Gli altri compagni di viaggio di Gibson si erano sistemati chi qua e chi là presso privati, ma poiché Jimmy non conosceva nessuno a Porto Lowell aveva deciso di accettare l’ospitalità offertagli dal giornalista. Gibson si chiedeva se l’esperimento sarebbe riuscito. Non aveva alcuna intenzione di forzare troppo la loro amicizia finora alquanto superficiale, e se Jimmy lo avesse frequentato troppo i risultati avrebbero potuto essere disastrosi. Ricordava un epigramma lanciato una volta al suo indirizzo dal suo peggiore nemico: "Può darsi che Martin sia un tipo in gamba, ma è certo che è meglio stargli alla larga". In quella frase c’era una certa dose di pungente verità, e Gibson non desiderava esperimentarne l’esattezza proprio in quella particolare occasione.
La sua vita nella cittadina aveva ormai preso un ritmo normale. Il mattino lo dedicava al lavoro, a mettere cioè sulla carta le sue impressioni marziane. Un’impresa alquanto presuntuosa considerate le poche esperienze avute sino a quel momento. Il pomeriggio era riservato invece ai giri di ispezione e ai colloqui e interviste con gli abitanti del Porto.
Una volta l’intero equipaggio dell’Ares andò ad assistere ai progressi compiuti dal dottor Scott e dai suoi colleghi nella lotta contro la febbre marziana. Era ancora troppo presto per trarre conclusioni positive, ma Scott sembrava alquanto ottimista. «Avremmo bisogno di una bella epidemia in grande stile» disse fregandosi le mani. «Solo così potremmo provare veramente l’efficacia di questa roba. Per il momento i casi di febbre sono troppo scarsi.»
Jimmy aveva due motivi per accompagnare Gibson nei suoi giri per la città. Prima di tutto il giornalista aveva il permesso di andare quasi ovunque, e così il ragazzo poteva visitare tutti i posti più interessanti che a lui invece sarebbero stati certamente preclusi. Il secondo era puramente personale, e consisteva nel suo crescente interesse per la personalità di Martin Gibson.
Per quanto ora fossero quasi sempre insieme, non avevano più riaperto la conversazione di quel giorno sull’Ares. Jimmy aveva compreso che Gibson desiderava essergli amico nel tentativo di rimediare, per quanto gli era possibile, a quello che gli era accaduto in passato. E Jimmy accettava queste profferte di amicizia abbastanza freddamente, da calcolatore, comprendendo bene quanto Gibson potesse essergli utile nella sua carriera. Gibson sarebbe forse rimasto sgomento se avesse saputo con quanta freddezza il ragazzo aveva valutato i vantaggi che gli sarebbero derivati dalla sua protezione.
Il fatto che portò nella vita di Jimmy un elemento nuovo e del tutto inatteso fu assolutamente banale. Era uscito solo, un pomeriggio, e poiché aveva sete era entrato nel locale di fronte al Palazzo dell’Amministrazione. Per sua disgrazia non aveva scelto il momento giusto, perché aveva appena iniziato a gustare lentamente la sua tazza di tè quando il locale era stato bruscamente invaso. Si trattava dell’intervallo di venti minuti durante i quali ogni lavoro cessava di colpo su Marte. Tale regola, che il Presidente aveva messo in vigore nell’intento di ottenere da tutti il massimo rendimento, non soddisfaceva più. La gente avrebbe preferito invece andare a casa venti minuti prima.
Jimmy fu subito letteralmente assediato da un esercito di ragazze che lo squadravano con imbarazzante candore e un’assoluta mancanza di diffidenza. Con le donne erano entrati anche una mezza dozzina d’uomini i quali si erano riuniti a un unico tavolo, quasi cercando mutua protezione, e a giudicare dalle loro espressioni assorte sembravano ancora immersi nelle preoccupazioni appena lasciate. Jimmy decise di finire in fretta il suo tè e di andarsene.
Di fronte a lui si era seduta una donna dall’aspetto alquanto autoritario, sulla trentina, probabilmente una segretaria di direzione, la quale stava chiacchierando con una ragazza molto più giovane di lei e che si era seduta al lato del tavolo più vicino a Jimmy. Sgusciare tra tutta quella folla senza travolgere nessuno fu una vera impresa, e mentre si faceva strada a fatica nello stretto passaggio fra i tavolini, Jimmy inciampò in un piede. Sentendosi cadere, si aggrappò disperatamente all’orlo del tavolo riuscendo a evitare un disastro completo, ma al grave prezzo di un sinistro scricchiolio del gomito finito con forza contro il piano di vetro. Nella confusione, e per il dolore, si dimenticò di non essere più a bordo dell’Ares, e sfogò la propria rabbia con un paio di parole tutt’altro che convenienti, quindi arrossendo furiosamente, si diresse verso l’uscita. Ma pur nella furia fece in tempo a notare che la donna più anziana faceva sforzi per non ridere mentre la ragazza, giudicando evidentemente stupido esercitare l’autocontrollo per un motivo così futile, sghignazzava allegramente senza il minimo ritegno.
Poco dopo però se n’era già dimenticato.
Fu Gibson a provocargli per puro caso, la seconda scarica emotiva. Stavano parlando della rapida crescita della città in quegli ultimi anni e chiedendosi se sarebbe continuata anche per l’avvenire. Gibson aveva messo in rilievo l’anormale distribuzione d’età causata dal fatto che nessuno al di sotto dei ventun anni aveva finora avuto il permesso di emigrare su Marte, così che sul pianeta esisteva un vuoto tra l’età di dieci e quella di ventuno, vuoto che però l’alto incremento demografico della colonia avrebbe presto colmato. Jimmy era stato ad ascoltare alquanto distrattamente, ma una frase di Gibson gli fece improvvisamente drizzare le orecchie.