La stazione spaziale numero uno si era talmente ingrandita col passare degli anni che i suoi primi ideatori non l’avrebbero certo riconosciuta. Intorno al nucleo centrale sferico erano sorti osservatori, laboratori per le comunicazioni, dotati di una fantastica rete di antenne, e veri labirinti di sezioni scientifiche di cui soltanto un esperto avrebbe saputo specificare il significato e l’uso. Ma nonostante tutte le aggiunte la funzione principale di questa luna artificiale consisteva tuttora nel rifornimento delle astronavi con le quali l’uomo sfidava la solitudine sterminata del sistema solare.
«Siete proprio sicuro di stare bene, adesso?» chiese il medico, mentre Gibson non osava ancora muoversi con disinvoltura.
«Mi sembra di sì» rispose Gibson, timoroso di compromettersi.
«Il polso risulta normale» borbottò l’ufficiale medico, come se la cosa gli seccasse. «Adesso vi porteremo nella stanza a gravità zero. Limitatevi a seguirmi e non stupitevi di quello che vi può capitare.»
Dopo questo avvertimento vago, precedette Gibson lungo un ampio corridoio illuminato intensamente che pareva incurvarsi all’insù alle due estremità. Gibson non ebbe il tempo di esaminare più a fondo il corridoio perché il medico aprì una porta laterale scorrevole e si avviò su per una rampa di gradini metallici. Gibson lo seguì automaticamente ma tutto a un tratto si avvide di quanto succedeva dinanzi a lui e si fermò lanciando involontariamente un grido di sorpresa.
Proprio sotto i suoi piedi l’inclinazione della scala era di quarantacinque gradi, ma subito diventava molto più rapida sino a che, dodici metri più in là, si alzava letteralmente in linea verticale. Poi, ed era uno spettacolo che avrebbe emozionato chiunque l’avesse visto per la prima volta, l’aumento del gradiente proseguiva inesorabile finché i gradini cominciavano a penderti sulla testa per scomparire finalmente alla vista al di sopra di te.
Nell’udire l’esclamazione di Gibson il medico si voltò a guardare, poi scoppiò in una risata.
«Non sempre bisogna credere ai propri occhi» spiegò. «Tenetemi dietro e vedrete che non è difficile.»
Gibson obbedì, e mentre avanzava si rese conto del verificarsi di due fenomeni assai caratteristici. Prima di tutto stava diventando gradualmente sempre più leggero, in secondo luogo, nonostante l’evidente irripidimento della scala, l’inclinazione sotto di lui restava costantemente di quarantacinque gradi. La direzione verticale infatti s’inclinava lentamente a mano a mano che lui procedeva, di modo che, malgrado la crescente curvatura, il gradiente di pendenza della scala non mutava mai. A Gibson non ci volle molto per giungere alla spiegazione di questo fenomeno. La gravità apparente era dovuta alla forza centrifuga prodotta dal lento roteare della stazione attorno al proprio asse, e a mano a mano che ci si avvicinava al centro la forza tendeva a zero. Anche la scala stessa si snodava internamente verso l’asse lungo una specie di spirale (una volta forse avrebbe saputo dirne il valore matematico) di modo che, nonostante il campo di gravità radiale, l’inclinazione sottostante rimaneva inalterata. Era un fenomeno al quale chi abitava nelle stazioni spaziali si abituava in fretta.
Al termine della scala non c’era più una sensazione precisa di su e giù. Adesso erano in una lunga stanza cilindrica, tutta attraversata da corde ma per il resto vuota; in fondo un fascio di luce solare entrava fiammeggiando da un finestrino d’osservazione. Sotto lo sguardo sorpreso di Gibson la spera luminosa si mosse rapida lungo le pareti di metallo, simile a un riflettore mobile, scomparve per un attimo, per ricomparire subito accecante a un altro finestrino. Era il primo indice, fornitogli dai suoi sensi, del fatto che la stazione ruotava effettivamente sul proprio asse. Calcolò il tempo impiegato dal fascio di luce solare a tornare nella propria posizione iniziale. Il giorno di quel minuscolo mondo artificiale durava meno di dieci secondi: il che era sufficiente a dare una sensazione di gravità normale in prossimità delle sue pareti esterne.
«Adesso vi lascerò qui per un po’» disse il medico. «Ci sono un sacco di cose da vedere. Ne sarete soddisfatto.»
Parzialmente nascosta dalla massa della stazione, la Terra era una grande falce che attraversava metà firmamento. Andava lentamente aumentando di mole a mano a mano che la stazione sfrecciava lungo la sua orbita: in capo a quaranta minuti circa la vista sarebbe stata piena, per diventare un’ora dopo assolutamente nulla, grande scudo nero che eclissava il Sole, mentre la stazione passava attraverso il suo cono di ombra. La Terra subiva tutte queste fasi, da nuova a piena e inversamente, nello spazio di due ore esatte. Il senso del tempo si deformava totalmente a questo pensiero.
A circa un chilometro dalla stazione, in movimento sincrono lungo la sua orbita ma in quel momento preciso non collegate ad essa in alcun modo, volteggiavano le tre astronavi che attualmente si trovavano in bacino. La prima era il minuscolo razzo a punta di freccia che un’ora prima aveva trasportato Gibson su dalla Terra con tanta sofferenza e disagio. La seconda era un mercantile diretto alla Luna. Doveva stazzare circa mille tonnellate lorde, calcolò Gibson. E la terza naturalmente era l’Ares, abbagliante nello splendore del suo rivestimento di alluminio verniciato di fresco.
Gibson non si era mai rassegnato al sacrificio delle aerodinamiche astronavi che erano state il miraggio dei primi anni del ventesimo secolo. Quello scintillante attrezzo ginnico, formato da due sfere unite da una sbarra, a forma di manubrio, non era il suo concetto di transatlantico spaziale, e anche se il mondo l’aveva accettato, lui ancora non ci si era abituato. Ne conosceva naturalmente le note giustificazioni: non occorreva una linea aerodinamica a un mezzo che non doveva entrare mai in nessuna atmosfera, e la forma quindi era suggerita da considerazioni di carattere puramente funzionale ed energetico. Poiché il congegno di propulsione potentemente radioattivo doveva essere situato il più lontano possibile dagli alloggiamenti dell’equipaggio, la doppia sfera e il lungo tubo di collegamento erano la soluzione più semplice.
2
A bordo dell’Ares, l’ufficio del Comandante era stato progettato per contenere tre uomini al massimo, quando la forza di gravità era in atto, ma c’era spazio più che sufficiente per sei quando la nave si trovava in un’orbita libera. Ci si poteva allora accomodare sulle pareti o sul soffitto, secondo i gusti. Tutti i componenti del gruppo raccolti intorno al capitano Norden, tranne uno, erano già stati nello spazio altre volte, e sapevano quello che ci si attendeva da loro, ma questa volta non si trattava di una riunione di normale amministrazione. Il volo inaugurale di una nuova astronave era sempre una solennità, e l’Ares era la prima astronave del suo genere; infatti era la prima nave spaziale costruita unicamente per il trasporto passeggeri, anziché per il solo carico. Era stata concepita con l’intento di trasportare un equipaggio di trenta uomini e circa centocinquanta passeggeri, i quali avrebbero potuto usufruire di comodità definibili, al massimo, spartane. Ma al suo primo viaggio le proporzioni si erano quasi invertite, e attualmente un equipaggio di soli sei uomini stava aspettando che salisse a bordo il loro unico passeggero.
«Io non ho ancora capito bene» disse Owem Bradley, lo specialista in elettronica «che cosa ce ne faremo di quello lì una volta che l’avremo a bordo.»
«Stavo appunto per parlarvene» disse il capitano Norden. «Immagino che conosciate tutti il signor Gibson.»
La domanda suscitò un coro di risposte.
«Io ho l’impressione che i suoi libri siano scemenze belle e buone» disse il dottor Scott. «Gli ultimi, perlomeno. Polvere marziana non era male, ma è completamente superato.»