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«È curioso, però» disse. «Proprio ieri ho visto una ragazza che non poteva avere più di diciott’anni.»

Ma subito s’interruppe. Come una bomba a scoppio ritardato, il ricordo della faccia ridente della ragazza mentre lui usciva in modo tanto maldestro dal bar gli esplose nella mente.

Non intese neppure quello che Gibson gli disse, e che cioè doveva essersi ingannato. Sapeva una cosa sola: chiunque fosse e da qualsiasi parte venisse, quella ragazza lui doveva rivederla.

In un posto con le dimensioni di Porto Lowell, ritrovarsi era unicamente questione di tempo. Ma Jimmy non aveva intenzione di aspettare che le incerte leggi del caso gli venissero in soccorso. Il giorno seguente, poco prima del consueto intervallo, era là, nel piccolo bar.

La mossa, non eccessivamente astuta, gli aveva procurato una certa ansietà. Prima di tutto avrebbe potuto sembrare troppo ovvia. Ma, in fondo, non poteva essere lì anche lui con gli altri visto che quasi tutti i dipendenti dell’Amministrazione andavano in quel locale? L’obiezione più grave era stato il ricordo della pessima figura fatta il giorno precedente. Comunque Jimmy si fece coraggio ricordando una certa citazione che gli pareva facesse al caso suo e in cui si parlava di cuori teneri e di belle dame.

Tutti i suoi scrupoli si rivelarono inutili. Attese fino a quando il bar non fu nuovamente vuoto, ma né la ragazza né la sua compagna si fecero vive. Forse erano andate da un’altra parte.

Per un giovane pieno di risorse come Jimmy, quello era soltanto uno scacco temporaneo. La ragazza doveva certo lavorare nel Palazzo dell’Amministrazione, dove era facilissimo entrare con una scusa qualsiasi. Pensò di andarci a chiedere informazioni sul suo stipendio, per quanto questo motivo difficilmente l’avrebbe portato nei meandri dell’archivio dove quasi sicuramente la ragazza doveva lavorare in qualità di stenografa.

La cosa migliore sarebbe stata di tenere d’occhio l’edificio all’ora in cui il personale entrava o usciva, anche se non sarebbe stato facile mettersi lì di guardia senza farsi notare. Ma prima ancora di aver pensato uno stratagemma qualsiasi, ecco che entrò nuovamente in gioco il destino, ancora una volta travestito da un Martin Gibson sbuffante e affannato.

«Ti ho cercato dappertutto, Jimmy. Ti consiglio di correre subito a cambiarti. Lo sai che c’è uno spettacolo stasera? Bene, siamo stati tutti invitati a cena dal Presidente, prima del teatro, cioè fra due ore.»

«Che cosa si indossa su Marte per i pranzi ufficiali?» domandò Jimmy.

«Pantaloncini neri e cravatta bianca» rispose Gibson incerto. «O il contrario? Comunque ce lo diranno all’albergo. Spero che riescano a scovare qualcosa che si possa infilare senza scoppiarci dentro.»

Ci riuscirono, giusto per un pelo. L’abito di società su Marte, dove per il calore e l’aria condizionata i vestiti erano ridotti al minimo, consisteva in una camicia di seta bianca con due file di bottoni di madreperla, una cravatta nera a farfalla, e un paio di pantaloncini di raso nero guarniti di una larga cintura a maglia, di alluminio, cucita su un sostegno elastico. L’effetto era tutt’altro che inelegante, ma quando fu vestito Gibson si sentì qualcosa a metà tra un boy-scout e il Piccolo Lord. Norden e Hilton invece stavano benissimo, Mackay e Scott un po’ meno. In quanto a Bradley se ne infischiava altamente, come al solito.

La residenza del Capo era la più vasta abitazione privata esistente su Marte, anche se sulla Terra sarebbe stata considerata una casa meno che modesta. Prima della cena si riunirono nel soggiorno a fare due chiacchiere e bere uno sherry, sherry autentico. Era stato invitato anche il maggiore Whittaker, seconda autorità dopo Hadfield, e nell’ascoltarli mentre parlavano con Norden, Gibson capì per la prima volta con quanto rispetto e ammirazione i coloni considerassero quegli uomini che rappresentavano il loro unico legame con la Terra. Hadfield stava facendo il panegirico dell’Ares con veri e propri accenti lirici per la sua velocità e il suo carico utile, e per i risultati che se ne sarebbero tratti a favore dell’economia marziana.

«Prima di passare in sala da pranzo» disse poi, quando ebbero terminato lo sherry «desidero presentarvi mia figlia. È di là a occuparsi che tutto sia in ordine. Scusatemi un attimo che vado a chiamarla.»

Tornò di lì a pochi secondi.

«Questa è Irene» disse con un tono che rivelava l’orgoglio paterno. La presentò agli ospiti, lasciando Jimmy per ultimo.

Irene guardò il giovane, poi gli disse col più dolce dei sorrisi: «Credo che noi due ci conosciamo già.»

Jimmy diventò rosso, ma si riprese subito e le restituì il sorriso.

«Lo credo anch’io» rispose.

Era stato un vero imbecille a non averci pensato. Se soltanto avesse riflettuto un po’, avrebbe capito chi era la ragazza del bar. L’unico che poteva infrangere le regole, su Marte, era chi le aveva istituite. Jimmy aveva effettivamente inteso dire che il Presidente aveva una figlia di diciott’anni, ma non aveva collegato le due cose. Adesso tutto combaciava perfettamente: quando Hadfield e sua moglie si erano trasferiti su Marte avevano portato con sé la loro unica figlia. Era stato specificato appositamente in una clausola del contratto, e a nessun altro era stato poi concesso di fare altrettanto.

La cena fu ottima, ma per quel che riguardava Jimmy fu completamente sprecata. Non aveva esattamente perso l’appetito, sarebbe stato impossibile, ma mangiava distratto, svogliato. Poiché era seduto all’estremità della tavola, riusciva a vedere Irene solo se allungava il collo in un modo che non poteva affatto essere definito elegante e distinto. Fu soddisfatto quando la cena, come Dio volle, ebbe termine e tutti passarono nell’altra stanza per il caffè.

Gli altri due componenti della famiglia del Presidente marziano erano già in salotto in attesa degli ospiti, e naturalmente avevano occupato i posti migliori. Si trattava di una splendida coppia di gatti siamesi che scrutarono i visitatori con i loro occhi insondabili. Vennero presentati come Topazio e Turchese, e Gibson, il quale adorava i gatti, si mise subito ad accarezzarli per cattivarsene l’amicizia.

«A voi piacciono, i gatti?» chiese Irene a Jimmy.

«Oh, sì» mentì Jimmy che li odiava. «Da quanto tempo sono qui?»

«Da un anno circa. Pensate, sono gli unici animali di Marte! Chissà se apprezzano questo privilegio.»

«Marte comunque l’apprezza. Ma non sono un po’ viziati?»

«Non si lasciano viziare, sono troppo indipendenti. Non credo che vogliano veramente bene a nessuno, neppure a mio padre, per quanto lui si ostini a sostenere il contrario.»

Con grande diplomazia, sebbene a uno spettatore estraneo sarebbe apparso evidente, Jimmy riuscì a portare la conversazione su un terreno più personale. Scoprì così che Irene lavorava nella sezione contabile, ma era informatissima su tutto quello che si svolgeva al reparto amministrativo dove sperava di occupare un giorno un importante posto di direzione. Jimmy pensò che forse, in un certo senso, l’alta posizione del padre le era di ostacolo. Anche se per certi versi questo doveva averle reso la vita più facile, per altri invece doveva averle creato svantaggi innegabili, perché Porto Lowell era molto democratica.

Ma era molto difficile mantenere Irene sull’argomento Marte: la ragazza era assai più desiderosa di parlare di Terra, del pianeta che aveva lasciato bambina e che quindi aveva nel suo ricordo una irrealtà di sogno. Jimmy fece del suo meglio per rispondere a tutte le domande in modo esauriente, ben felice di discorrere di qualsiasi cosa che potesse tenere desto l’interesse della ragazza. Le parlò delle grandi metropoli terrestri, delle montagne e dei mari, dei cieli azzurri solcati di nubi, dei fiumi e degli arcobaleni… di tutte le cose insomma che Marte non aveva. E mentre parlava si sentiva sempre più preso dal fascino degli occhi ridenti di Irene. Ridenti. Non c’era altro modo per descriverli. Pareva che la ragazza condividesse con l’interlocutore una misteriosa allegria segreta.