«Ma allora, che cosa aspettate?»
«I quattrini, come al solito! È un viaggio che durerà due anni e mezzo e costerà circa cinquanta milioni di sterline. Marte naturalmente non si può permettere questo lusso. Significherebbe raddoppiare il suo deficit. Ora stiamo tentando di convincere la Terra a finanziarci.»
«Vedrete che alla fine ci riuscirete» disse Gibson. «Ma quando saremo tornati, dammi tutti i dati che ci penso io a scriverli un esposto pepato contro quei rognosi politicanti terricoli. Ricordati che non bisogna mai sottovalutare la potenza della stampa.»
La conversazione si spostò da un pianeta all’altro finché Gibson si ricordò di colpo che stava perdendo una magnifica occasione per ammirare Marte. Dopo aver ottenuto dal pilota il permesso di occupare il suo sedile, dietro la promessa solenne di non toccare niente, passò a prua e si sedette comodamente dietro i controlli.
A mille metri sotto di loro il deserto colorato fuggiva via in direzione ovest. Volavano a una quota che sulla Terra sarebbe stata molto bassa, ma la scarsa densità dell’atmosfera marziana imponeva di mantenersi il più possibile vicino alla superficie, naturalmente entro i margini concessi dai limiti di sicurezza.
Di tanto in tanto il pilota si spostava a prua per controllare la rotta. Una pura formalità, infatti lui non aveva proprio niente da fare sino al momento in cui il viaggio fosse stato prossimo al termine. A una certa ora decisero di bere un caffè, e Gibson raggiunse i compagni nella cabina.
Il Sole intanto era sceso molto basso a occidente, e persino le modeste alture marziane riuscivano a gettare lunghe ombre sul deserto. Al suolo la temperatura era già calata sotto lo zero, e continuava ad abbassarsi rapidamente. Le poche piante coriacee sopravvissute in quella desolazione dovevano aver già congiunto strettamente le loro foglie per conservare quel poco di calore e di energia che avevano immagazzinato durante il giorno, per difendersi dai rigori della notte.
Gibson sbadigliò e si stirò. Quel paesaggio che si snodava velocemente sotto i suoi occhi aveva su di lui un effetto ipnotico contro cui lo scrittore tentava inutilmente di lottare. Decise pertanto di schiacciare un sonnellino durante i novanta minuti o poco più di volo che ancora restavano.
Probabilmente era stato svegliato da un cambiamento nella luce morente. Per un attimo non riuscì a capire quello che vedeva. Rimase immobile a guardare a bocca spalancata, letteralmente paralizzato dallo stupore. Davanti a sé non aveva più il paesaggio piatto, uniforme di poco prima. Deserto e orizzonte erano svaniti e al loro posto torreggiava una catena di montagne vermiglie che si allungavano a perdita d’occhio da nord a sud. Gli ultimi raggi del sole morente ne sfioravano le cime mentre il resto scompariva nella notte che stava avanzando verso occidente.
Per alcuni secondi lo splendore dello spettacolo tolse alla situazione ogni senso di realtà e perciò di minaccia. Infine Gibson si scosse dall’inebetimento in cui era caduto, e con panico improvviso si rese conto che stavano volando a quota troppo bassa per evitare quelle cime da Himalaya!
Al panico improvviso seguì una stretta assai più angosciosa di terrore cosciente, perché si era ricordato di un particolare che nel primo sgomento aveva completamente scordato, e che pure era un l’atto, una realtà arcinota: su Marte non c’erano montagne!
Quando gli portarono la notizia, Hadfield stava dettando un appunto ingente per l’ufficio sviluppi interplanetari. Porto Schiaparelli aveva dato l’allarme quindici minuti dopo il tempo previsto per l’arrivo dell’apparecchio, e il Controllo di Porto Lowell aveva aspettato altri dieci prima di lanciale il segnale di ritardo. Un prezioso velivolo della minuscola squadra marziana si teneva già pronto a decollare non appena fosse spuntata l’alba. L’alta velocità e la bassa quota, essenziali al volo, rendevano tutte le ricognizioni estremamente difficili, ma non appena fosse sorto Phobos i telescopi di lassù avrebbero potuto funzionare collaborando alle ricerche con maggiori probabilità di successo.
La notizia arrivò alla Terra un’ora dopo in un momento in cui radio e stampa erano a corto di notizie. Dopo l’annuncio la gente si affrettò a leggere gli ultimi articoli di Gibson con interesse morboso. Ruth Goldstein non ne seppe niente fino al momento in cui andò da lei, sventolando un giornale della sera, un redattore col quale doveva discutere un paio di questioni tecniche. Ruth vendette immediatamente i diritti di ristampa dell’ultima serie di articoli di Gibson per il doppio di quanto il compratore avrebbe voluto pagarli, poi si ritirò nel suo ufficio privato e pianse disperatamente per oltre un minuto. Questi due fatti sarebbero piaciuti immensamente a Gibson.
L’urlo di Gibson echeggiava ancora per la cabina quando il pilota raggiunse i comandi. Poi l’apparecchio fece un’impennata nel disperato tentativo di virare a nord, e Gibson rotolò sul pavimento. Quando poté rimettersi in piedi vide una rupe arancione dai contorni stranamente sfuocati che veniva loro incontro da pochi chilometri di distanza. Pur nel panico di cui era preda notò che c’era qualcosa di molto curioso in quella barriera che avanzava furiosamente, e a un tratto capì. Quella non era una catena di montagne ma qualcosa di altrettanto mortale. Erano incappati in un muro di sabbia sospinto dal vento, che dal deserto si elevava sin quasi al limite della stratosfera.
L’uragano li investì un istante dopo. Qualcosa sferzò violentemente l’apparecchio sui due lati. Attraverso l’intercapedine isolante dell’ossatura giunse un boato iroso, sibilante, il suono più pauroso che Gibson avesse mai sentito. La notte era scesa improvvisamente su di loro, e adesso volavano alla cieca in mezzo a dense tenebre urlanti.
Tutto finì in pochi minuti che a Gibson sembrarono durare un’eternità. Era stata la loro velocità a salvarli: l’apparecchio aveva trapassato il cuore dell’uragano come un proiettile. Improvvisamente si diffuse una luce crepuscolare color rosso rubino, l’aereo cessò di essere martellato come da milioni di martelli, e un silenzio pieno d’echi riempì la piccola cabina. Attraverso il finestrino di poppa Gibson colse un’ultima visione della tempesta che si allontanava verso ovest trascinandosi dietro l’intero deserto.
Le gambe molli come gelatina, Gibson raggiunse barcollante il suo posto, mentre dal petto gli usciva un intenso sospiro di sollievo. Per un attimo si chiese se fossero stati scaraventati irrimediabilmente fuori rotta, poi pensò che questo avrebbe avuto poca importanza considerato il perfetto apparato di navigazione strumentale al quale potevano affidarsi.
Fu proprio allora, mentre il suo udito maltrattato dal fragore dell’uragano ricominciava a funzionare, che Gibson ricevette il secondo colpo: i motori si erano fermati.
Nella cabina il silenzio si era fatto teso.
A un tratto il pilota ordinò senza voltarsi: «Mettetevi le maschere. Può darsi che l’ossatura si fracassi mentre atterriamo.»
Con dita molli Gibson prese la maschera da sotto al sedile e se l’agganciò in qualche modo. Quando fu pronto, il suolo si era fatto molto più vicino, benché la luce smorzata impedisse di calcolare la distanza esatta.
Una bassa collina sfilò di fianco a loro e si perse nelle tenebre. L’apparecchio s’inclinò violentemente per evitarne un’altra, poi con un brusco scossone, toccò terra e rimbalzò. Un attimo dopo riprese contatto con il terreno e Gibson si irrigidì in attesa del capottamento inevitabile.
Gli parve che passasse un secolo, poi osò finalmente rilassarsi, ancora incapace di credere che fossero sani e salvi. Accanto a lui, Hilton si stirò nel suo sedile, si tolse la maschera e gridò al pilota: «Bravo! Un atterraggio magnifico, comandante! E adesso quanta strada dovremo fare a piedi?»
Per un attimo nessuno parlò, poi il pilota chiese, con voce alterata: «Chi mi accende la sigaretta? Mi tremano le mani.»