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«E quando ne scriverai, perché sono certo che ne scriverai, dovrai prima farmi vedere il manoscritto.»

«D’accordo.»

Che l’uomo si fosse spinto fino a Saturno ma non su Giove che pure era tanto più vicino, incuriosiva ancora molti. Ma nei viaggi interplanetari il fattore più importante non è la distanza. Saturno era stato raggiunto per un singolare colpo di fortuna che sembrava ancora troppo straordinario per essere vero. Nell’orbita di Saturno ruota Titano, il maggiore satellite del Sistema Solare, grande circa due volte la luna terrestre. Sin dal lontano 1944 si era scoperto che Titano possedeva un’atmosfera. Non era un’atmosfera respirabile, ma aveva il pregio infinitamente superiore di essere composta di metano, un elemento ideale per la propulsione dei razzi nucleari. Questo aveva dato origine a una situazione unica nella storia del volo spaziale. Per la prima volta era possibile inviare una spedizione verso un mondo sconosciuto con la virtuale certezza che al suo arrivo essa avrebbe potuto rifornirsi di carburante a volontà.

L’Arcturus col suo equipaggio di sei uomini era stata lanciata nello spazio dall’orbita di Marte. Aveva raggiunto il sistema saturniano solo nove mesi dopo, con carburante appena sufficiente per atterrare su Titano. Quindi erano state messe in azione le pompe, e i grandi serbatoi erano stati riempiti attingendo dai miliardi di miliardi di tonnellate di metano là a disposizione di chi voleva, o meglio, poteva prenderseli. Andando a rifornirsi su Titano ogni volta che avevano bisogno di carburante, gli uomini dell’Arcturus avevano potuto visitare a una a una tutte le quindici lune di Saturno, e ne avevano circumnavigato persino il grande anello. E così, in pochi mesi, si erano raccolte molte più notizie su quel lontano pianeta di quante se ne fossero apprese in tanti secoli di osservazioni coi telescopi.

Purtroppo si era dovuto pagare un duro prezzo. Due uomini dell’equipaggio erano morti in seguito a contaminazione da radiazioni dopo una riparazione d’emergenza a un motore. Erano stati sepolti su Dione, la quarta luna. Il capo della spedizione, capitano Envers, era stato ucciso su Titano da una valanga di aria gelata. Il suo cadavere non era più stato ritrovato. Allora Hilton aveva assunto il comando, e un anno dopo era riuscito a riportare su Marte, intatta, l’Arcturus con l’equipaggio superstite.

Gibson conosceva già i fatti. Ricordava ancora i radiomessaggi che avevano attraversato lo spazio, ritrasmessi da un mondo all’altro. Ma adesso era completamente diverso ascoltare il racconto di quell’avventura dalla viva voce di Hilton che narrava col suo tono calmo, quasi impersonale, come se, anziché protagonista, fosse stato semplice spettatore.

Parlò di Titano e dei suoi fratelli minori, le piccole lune che circondano Saturno facendo di questo pianeta quasi un modello su piccola scala del Sistema Solare. Raccontò come erano finalmente atterrati sulla luna più interna, Mimas, che dista da Saturno solo metà di quanto la Luna disti dalla Terra.

«Scendemmo in una valle ampia, chiusa tra due montagne, dove eravamo convinti che il terreno fosse più che solido. Non volevamo ripetere l’errore commesso su Rea. Fu un atterraggio perfetto, e per uscire all’esterno ci infilammo nelle apposite tute. È strano come si è sempre impazienti di sbarcare, per quante volte si possa aver messo piede su un mondo nuovo.

«Mimas ha una bassa gravità, solo un centesimo di quella terrestre, ma sufficiente per evitarci di finire nello spazio. Quella di avanzare a balzi era un’esperienza che mi divertiva. Per quanto lungo e alto che fosse il balzo, si poteva stare sicuri che presto o tardi si finiva col ridiscendere, purché si avesse la pazienza di aspettare.

«Quando sbarcammo era mattino presto. Mimas ha le giornate un poco più brevi di quelle terrestri: compie il giro di Saturno in ventidue ore e mezzo. Come la Luna, Mimas ha il periodo di rivoluzione lungo quanto quello di rotazione, quindi offre al suo pianeta sempre la stessa faccia, o meglio, dal pianeta è possibile vederne sempre soltanto una faccia. Eravamo discesi nell’emisfero settentrionale, non lontano dall’equatore, e Saturno si trovava già molto sopra l’orizzonte. Aveva un aspetto veramente bizzarro, inquietante, una specie di montagna dalla curvatura assurda e alta migliaia di chilometri.

«Avrete certo visto i film che abbiamo girato, specialmente quello a colori che mostra, accelerato, un ciclo completo delle fasi di Saturno. Ma non credo che i film possano rendere perfettamente quello che significa vivere con quella sfera enorme sempre sospesa lassù nel cielo. È talmente grande che non si riesce a vederla tutta in una volta. Se ci si metteva di fronte e si allargavano le braccia si aveva l’impressione di poter toccare con la punta delle dita le estremità opposte degli anelli. Gli anelli veri e propri non si possono distinguere molto bene perché sono sottilissimi, data la loro posizione quasi verticale, ma è possibile individuarne la posizione dalla grande fascia d’ombra che gettano costantemente sul pianeta.

«Noi non ci stancavamo mai di guardare. Saturno ruota con tanta velocità, che il panorama muta continuamente. Le formazioni di nubi, ammesso che si trattasse effettivamente di nubi, sfrecciavano da un lato all’altro del disco in poche ore, trasformandosi di continuo nel loro fuggire. Ed avevano i colori più meravigliosi e incredibili. Ce n’erano di verdi, di viola, di gialle soprattutto. Di tanto in tanto si verificavano lente, enormi eruzioni, e dalle profondità si levava un fungo grande quanto la Terra che andava pigramente allargandosi in una macchia immensa che ricopriva metà pianeta.

«Era impossibile non guardare. Persino di notte, quando era completamente invisibile, se ne indovinava la presenza dalla grande porzione di cielo vuoto di stelle. A questo proposito voglio raccontarvi una cosa curiosa della quale non ho mai parlato ufficialmente perché non ne sono mai stato del tutto sicuro. Un paio di volte, mentre ci trovavamo nell’ombra del pianeta e il suo disco avrebbe dovuto essere completamente spento, ebbi l’impressione di vedere provenire dal suo lato notturno una debole luce fostorescente di brevissima durata, ammesso che ci fosse stata. Forse si trattava di qualche misteriosa reazione chimica in atto nel roteante pentolone.

"Vi sorprende che desideri tornare su Saturno? Questa volta mi piacerebbe potergli andare vicino per davvero, e per vicino intendo non più di mille chilometri. Dovrebbe essere una impresa sicura e non si dovrebbe consumare troppa energia. Basta entrare in un’orbita parabolica e poi lasciarsi cadere all’interno come una cometa che giri intorno al Sole. Certo non sarebbe possibile stargli vicino più di qualche minuto, ma anche in pochi minuti si può osservare molto.

«E voglio poi tornare su Mimas e rivedere ancora una volta quella immensa lucente mezzaluna che occupa metà cielo. Vale la pena di tare tutto quel lungo viaggio solo per osservare Saturno crescere e calare, e contemplare le tempeste che si inseguono intorno al suo equatore. Sì, ne varrebbe veramente la pena, anche se questa volta non dovessi tornare!»

Non c’era la minima retorica in quelle sue ultime parole. Era una semplice costatazione, e i compagni che lo ascoltavano non pensarono neppure per un attimo che Hilton volesse atteggiarsi a eroe da melodramma. Anzi, finché l’incanto durava, ognuno di loro si sentiva pronto a imitarlo.

Gibson mise termine al lungo silenzio seguito al racconto di Hilton, andando a scrutare la notte attraverso il finestrino della cabina.

«Possiamo spegnere le luci?» chiese. Il pilota acconsentì subito alla sua richiesta, e nel buio più fitto gli altri lo raggiunsero presso il finestrino.

«Guardate» disse Gibson. «Se allungate il collo riuscirete a vederlo lassù.»

La roccia contro la quale erano adagiati non era più un muro di oscurità assoluta, impenetrabile. Proprio sulla sua cima più alta brillava ora una luce nuova, che infiltrandosi nei crepacci dilagava giù a valle. Phobos si era arrampicato su da occidente e stava compiendo la sua ascesa verso sud, correndo alla rovescia per il cielo.