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Di minuto in minuto la luce si faceva più intensa, e poco dopo il pilota cominciò a inviare i suoi segnali. Ma aveva appena iniziato, che la fievole luce lunare si spense improvvisamente strappando a Gibson un grido di sorpresa. Phobos era andato a immergersi nell’ombra di Marte, e nonostante che tosse tuttora in ascesa avrebbe cessato di brillare per quasi un’ora. Non era possibile dire se si sarebbe ancora affacciato sopra l’orlo della grande roccia venendo così a trovarsi nella posizione giusta per ricevere i segnali radio dell’apparecchio danneggiato.

Per quasi due ore i naufraghi aspettarono, sperando. A un tratto la luce riapparve sulle cime, ma brillava adesso da est. Phobos era emerso dalla sua eclissi e si stava buttando a capofitto verso l’orizzonte che avrebbe raggiunto in poco più di un’ora. Disgustato, il pilota chiuse la trasmittente.

«Non ce la facciamo» disse. «Dovremo tentare qualche altro mezzo.»

«Ho un’idea» disse Gibson. «Perché non proviamo a trasportare la trasmittente sulla cima della collina?»

«Ci avevo pensato anch’io, ma sarebbe già un’impresa tirarla fuori avendo gli attrezzi adatti, perché tutto è inserito dentro l’ossatura. Figuriamoci in queste condizioni!»

«Comunque sia, per stanotte non possiamo fare più niente» concluse Hilton. «Propongo che si dorma tutti fino a domattina all’alba. Io vi auguro buona notte.»

Un ottimo consiglio ma difficile da seguire. La mente di Gibson era in ebollizione, e seguitava a elaborare progetti per l’indomani. Solo quando Phobos si fu finalmente tuffato a oriente e la sua luce cessò di scherzare sulla roccia che li sovrastava, riuscì ad addormentarsi di un sonno inquieto.

12

Gibson si svegliò che l’alba era spuntata da un pezzo. Il Sole era ancora invisibile dietro le colline, ma i suoi raggi si riverberavano sulle rupi scarlatte e inondavano la cabina di una luce irreale, quasi sinistra. Si stirò. Era tutto indolenzito. Quei sedili non erano certo stati progettati per dormirci, in più lui aveva passato una notte assai agitata.

Si guardò attorno in cerca dei compagni. Hilton e il pilota erano scomparsi. Jimmy invece dormiva ancora profondamente. Gli altri due erano sicuramente usciti in esplorazione. Gibson si sentì un po’ offeso al pensiero di essere stato messo in disparte, ma capì che forse si sarebbe seccato ancora di più se gli avessero, interrotto il sonno.

Hilton aveva appuntato alla parete della cabina, bene in evidenza, un breve messaggio. Diceva semplicemente: "Siamo usciti alle 6.30. Staremo fuori circa un’ora. Quando rientreremo avremo fame".

Impossibile non raccogliere l’appello implicito. D’altra parte anche lui aveva fame. Frugò nel pacco speciale d’emergenza che ogni apparecchio aveva a bordo per casi simili, chiedendosi per quanto tempo avrebbero dovuto attingervi e soprattutto sino a quando sarebbero durate le scorte.

I suoi tentativi per preparare una bevanda calda sul minuscolo bollitore a pressione svegliarono Jimmy. Il ragazzo fece una faccia mortificata quando si accorse di avere dormito più di tutti.

«Hai riposato bene?» gli chiese Gibson mentre cercava le tazze.

«Malissimo» rispose Jimmy riordinandosi i capelli con le mani. «Mi sento come se non dormissi da una settimana. Dove sono gli altri?»

Alla sua domanda rispose un rumore di passi: qualcuno stava entrando nel compartimento stagno. Un attimo dopo comparve Hilton seguito dal pilota. Si tolsero le maschere e le tute spaziali termiche, fuori la temperatura era tuttora sotto lo zero, e si precipitarono sulle tazze di cioccolata e le razioni di carne che Gibson aveva diviso in parti uguali.

«Allora?» chiese Gibson, con ansia. «Qual è il verdetto?»

«Una cosa possiamo dirtela subito» disse Hilton tra un boccone e l’altro. «Dobbiamo ritenerci straordinariamente fortunati di essere ancora vivi.»

«Questo lo so.»

«Lo sai soltanto a metà, perché non hai ancora visto dove siamo scesi. Prima di fermarci siamo filati parallelamente a quella roccia per quasi mille metri. Bastava uno sbandamento di un paio di gradi a destra, e addio! Quando abbiamo toccato il suolo abbiamo oscillato un po’ all’indietro, ma per fortuna non abbastanza da riportare danni.

«Ci troviamo in una valle lunga che corre da est a ovest. Più che di un antico letto di fiume ha tutto l’aspetto di un errore geologico, così a occhio e croce. La roccia che abbiamo di fronte è alta circa cento metri ed è praticamente verticale. Per essere esatti, in prossimità della cima si piega leggermente a uncino. Può darsi che con un po’ di buona volontà si possa scalarla, ma per il momento non abbiamo provato. Del resto non ce n’è bisogno. Se vogliamo che da Phobos ci vedano basterà che ci spostiamo un po’ a nord in modo che la roccia non si frapponga tra noi e loro. In realtà, credo che questo sia il sistema migliore, soltanto dovremmo riuscire a portare l’apparecchio in un luogo più scoperto, il che ci permetterà di usare la radio, e darà ai telescopi e alle ricerche dall’aria una maggiore possibilità di individuarci.»

«Quanto pesa?» chiese Gibson guardandosi in giro con aria preoccupata.

«Circa trenta tonnellate a pieno carico. Ma naturalmente c’è un sacco di roba inutile che possiamo togliere.»

«E invece non si può togliere niente» disse il pilota. «Significherebbe ridurre la nostra pressione, e non possiamo permetterci il lusso di sciupare aria preziosa.»

«Oh, Cielo, avevo dimenticato questo particolare. Comunque il terreno è piano e il carrello è in perfetto ordine.»

Gibson espresse i suoi dubbi con una serie di suoni molto simili a grugniti. Nonostante la bassa gravità, muovere l’aereo non doveva certo essere un’impresa facile.

La colazione, poco saporita ma sostanziosa, fu consumata in silenzio. I naufraghi rimuginavano ognuno per conto suo i più svariati progetti per la salvezza. Non erano seriamente preoccupati perché sapevano che li stavano cercando e che prima o poi li avrebbero trovati: era solo questione di tempo. Questo tempo però avrebbe potuto venire ridotto a poche ore se loro fossero riusciti a inviare un segnale a Phobos.

Dopo aver fatto colazione, tentarono di smuovere l’apparecchio. A furia di spinte riuscirono a spostarlo di cinque o sei metri. Poi i cingoli del carrello affondarono nel terreno molle, e nonostante tutti i loro sforzi il pesante apparecchio non si mosse più. Ansimanti, rientrarono in cabina a discutere sul da farsi.

«Abbiamo qualcosa di bianco, un po’ grande, da distendere sul terreno?» chiese Gibson.

L’idea era ottima ma fu stroncata sul nascere perché, dopo febbrili ricerche, riuscirono a raccogliere in tutto sei fazzoletti e pochi stracci unti d’olio di macchina. Dovettero ammettere che anche nelle condizioni più favorevoli una segnalazione ottica di dimensioni così limitate non sarebbe stata certamente visibile da Phobos.

«Ci resta una sola cosa da fare» disse Hilton. «Smontare le luci d’atterraggio, farle scorrere con un cavo fino oltre la roccia, e poi dirigerne il raggio su Phobos. Avrei preferito evitare questa soluzione se appena fosse stato possibile, chissà come si ridurrà l’ala ed è un vero peccato rovinare un così bell’aereo.»

Dalla faccia che fece, si capì che il pilota era esattamente del suo parere.

A un tratto a Jimmy venne un’idea brillante.

«Perché non costruiamo un eliografo?» disse. «Se riuscissimo a dirigere su Phobos i riflessi di uno specchio, credo che li vedrebbero.»

«A seimila chilometri di distanza?» disse Gibson scettico.

«Perché no? Hanno telescopi a oltre mille ingrandimenti. Voi non vedreste i riflessi del Sole in uno specchio anche a sei chilometri di distanza a occhio nudo?»

«Sono sicuro che nel tuo calcolo c’è un errore, anche se non saprei dirti di che errore si tratta» disse Gibson. «Nella vita reale i problemi non si risolvono mai così semplicemente. Però si può tentare. Vediamo un po’; chi ha uno specchio?»