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«Procuratemi una pulce del deserto con guidatore» disse. «Li voglio alla galleria Uno Ovest tra mezz’ora.» Quindi si rivolse a Gibson. «Potete essere pronto fra trenta minuti?»

«Ma… certo, naturalmente. Devo solo passare dall’albergo a prendere la maschera.»

«Bene. Allora ci rivediamo tra mezz’ora.»

Gibson arrivò all’appuntamento con dieci minuti di anticipo e la mente in tumulto. L’Organizzazione dei Trasporti era riuscita a procurare un veicolo in tempo, e il Presidente fu puntuale come sempre. Diede al conducente alcune istruzioni che Gibson non riuscì ad afferrare, e la pulce uscì dalla cupola e imboccò la strada che correva tutt’attorno.

«Sto per fare una cosa alquanto avventata, Gibson» disse Hadfield mentre il paesaggio verde sfilava rapido ai lati del veicolo. «Siete disposto a darmi la vostra parola d’onore che non direte niente di quanto sto per rivelarvi finché non ve ne darò l’autorizzazione?»

«Certo» rispose Gibson sorpreso.

«Mi fido di voi perché ho la sensazione che siate dei nostri, e perché non vi siete rivelato quella seccatura che temevo.»

«Grazie» disse Gibson, colpito dalla sincerità del Presidente.

«E anche per la scoperta preziosa che ci avete regalato. Per tutto questo ritengo che vi dobbiamo qualcosa in cambio.»

La pulce aveva puntato verso sud seguendo la pista che portava alle colline. E finalmente Gibson capì dove erano diretti.

«Ti sei preoccupata quando hai saputo che eravamo dati per dispersi?» domandò Jimmy in tono ansioso.

«Molto» rispose Irene. «Non riuscivo nemmeno a dormire, tanto ero angosciata.»

«Adesso però che la nostra avventura si è risolta felicemente, non trovi che ne sia valsa la pena?»

«Può darsi, però continuo a pensare che tra un mese te ne andrai di nuovo. Oh, Jimmy, che cosa faremo allora?»

Una profonda disperazione si impadronì dei due ragazzi, e la momentanea gioia di Jimmy si trasformò in sconforto. Era inutile cercare di ignorare la realtà: fra meno di quattro settimane l’Ares avrebbe lasciato Deimos, e sarebbero passati forse anni prima che Jimmy potesse tornare su Marte. Una prospettiva crudele per essere espressa a parole.

«Anche ammesso che me lo permettessero non potrei restare qui» disse Jimmy. «Non posso guadagnarmi da vivere senza una specializzazione, e avrò altri due anni di studio dopo la laurea, per non parlare del viaggio a Venere! Però si può tentare una cosai»

Gli occhi d’Irene s’illuminarono, ma subito la sua faccia tornò triste.

«Ne abbiamo già parlato, ma sono sicura che mio padre non acconsentirà.»

«Si può tentare. Dirò a Martin di parlargliene lui.»

«Chi? Il signor Gibson? Credi che lo farà?»

«Ne sono sicuro. Vedrai che saprà essere molto convincente.»

«Non vedo perché si dovrebbe interessare di noi.»

«Perché mi vuol bene» disse Jimmy con disinvoltura. «Sono sicuro che sarà d’accordo. Non è giusto che tu resti qui a vegetare su Marte senza aver mai conosciuto niente della Terra. Parigi… New York… Londra… Non si è vissuto veramente se non si conoscono queste città. Lo sai che cosa penso?»

«Dimmi.»

«Che tuo padre è molto egoista a tenerti qui.»

Irene parve contrariata. Era molto affezionata al padre e il suo primo impulso fu quello di difenderlo, ma ormai era divisa tra due affetti, e non c’era dubbio su quale dei due avrebbe vinto.

«Certo» aggiunse Jimmy accorgendosi di aver esagerato, «sono convinto che lui voglia il tuo bene, ma ha tante cose a cui badare. Forse ormai ha dimenticato com’è fatta la Terra, e non si rende conto di quello che tu stai perdendo. No, bisogna che tu te ne venga via di qui prima che sia troppo tardi.»

Irene sembrava indecisa. Alla fine le venne in soccorso il suo senso umoristico, assai più acuto di quello di Jimmy.

«Sono certa che se fossimo sulla Terra, e tu dovessi tornare su Marte, saresti capace di dimostrarmi con argomenti altrettanto convincenti che dovrei seguirti quassù!»

A tutta prima Jimmy si mostrò offeso, ma poi capì che Irene non si prendeva seriamente gioco di lui.

«Va bene» disse. «Questa faccenda è sistemata. Non appena vedrò Martin gliene parlerò e gli chiederò di convincere tuo padre. Per il momento non pensiamoci.»

Il piccolo anfiteatro tra le colline intorno a Porto Lowell era esattamente come Gibson lo ricordava, solo che il verde della lucida vegetazione era un po’ sbiadito come per effetto delle prime avvisaglie dell’autunno in realtà ancora lontano. La pulce si fermò davanti alla più grande delle quattro cupole e i due uomini si avviarono verso il compartimento stagno.

«Quando sono stato qui l’altra volta» disse Gibson, «mi è stato detto che avremmo dovuto disinfettarci prima di poter entrare.»

«Una piccola esagerazione per scoraggiare gli ospiti indesiderati» spiegò Hadfield, senza imbarazzo.

A un suo segnale, la porta esterna si aprì e subito i due si liberarono dei respiratori. «Al principio prendevamo queste precauzioni, ma adesso non sono più necessarie.»

Anche la seconda porta e la terza si aprirono lasciandoli passare nell’interno della cupola. Un uomo in camice bianco, il classico camice tutt’altro che immacolato, da sperimentatore, li stava aspettando.

«Salve, Baines» disse Hadfield. «Gibson, questo è il professor Baines. Probabilmente vi conoscete già di fama.»

I due uomini si strinsero la mano. Gibson sapeva che Baines era uno dei massimi esperti mondiali in fatto di genetica delle piante. Aveva letto su qualche giornale che da un paio d’anni si trovava su Marte per studiarne la flora.

«Dunque voi siete il terrestre che ha appena scoperto l’oxyfera» disse Baines con aria sognante. Era di corporatura massiccia, con la faccia cotta dalle intemperie, e un’aria distratta che contrastava bizzarramente con i lineamenti decisi e l’aspetto solido.

«È così che la chiamate?» disse Gibson. «Be’, credevo di averla scoperta io, ma comincio a dubitarne.»

«Voi comunque avete fatto una scoperta forse più importante» si affrettò a dire Hadfield. «Baines però non si interessa di animali, perciò è inutile parlargli dei vostri amici marziani.»

Intanto si erano avviati tra basse pareti grezze che dividevano la cupola in stanze e corridoi. Tutto aveva l’aria di essere stato costruito in gran fretta. Passarono accanto a complesse apparecchiature scientifiche posate su casse d’imballaggio. Ovunque si respirava un’aria di febbrile improvvisazione, ma, fatto strano, c’era pochissima gente al lavoro. Gibson ebbe la sensazione che, di qualunque cosa si fosse trattato, il lavoro svolto sotto quella cupola fosse ormai concluso, e che di tutto il personale non fossero rimasti che gli elementi indispensabili.

Baines li accompagnò al compartimento stagno che portava a un’altra cupola, e mentre aspettavano che l’ultima porta si aprisse, disse con la sua voce pacata: «Può darsi che adesso gli occhi vi facciano un po’ male.» Dopo queste parole, Gibson alzò una mano a fare da schermo.

La prima impressione che ricevette fu di luce accecante e di calore insopportabile. Fu come se, con un solo passo, fosse andato dal Polo ai Tropici. Dall’alto, potenti fari inondavano di luce la stanza semisferica. L’atmosfera era pesante, opprimente, e non a causa soltanto del caldo. Gibson si chiese che razza di aria stesse respirando.

La cupola non era suddivisa in locali ma era tutta un grande spazio circolare occupato da aiuole ordinate nelle quali crescevano tutte le piante marziane che Gibson aveva visto sino a quel momento, e parecchie altre. Circa un quarto della superficie del locale era ricoperto di alte foglie brune che Gibson riconobbe immediatamente.