Выбрать главу

Passandosi pensosamente una mano sul lobo dell’orecchio, Raven rimase fermo in mezzo alla nebbia a osservare l’edificio. Da dove si trovava lui, era visibile soltanto la base. Il resto si confondeva nel buio della notte e negli strati più alti della nebbia. Eppure, lo sguardo di Raven andava dal basso in alto, come se potesse perfettamente vedere quello che era nascosto agli occhi normali.

— Sembra una fortezza — osservò. — Come lo chiama? Palazzo Imperiale, Villino Magnolia, o cosa?

— Originariamente veniva chiamato Base Quattro - disse Charles. — Thorstern lo ha ribattezzato Blackstone. Però in città tutti lo chiamano il Castello. - Spostò lo sguardo verso l’alto, come se anche lui avesse la stessa facoltà di vedere quello che non era visibile. — E adesso? Dobbiamo entrare alla nostra maniera, o vogliamo aspettare che esca?

— Entriamo. Non voglio girare qua attorno fino a un’ora imprecisata di domani mattina.

— Neanch’io. — Charles indicò versò l’alto. — Entriamo dalla cima di una torre, o vogliamo passare da una porta?

— Entreremo come dei gentiluomini. In modo civile — decise Raven. — Cioè, attraverso il cancello principale. — Diede un’altra occhiata all’edificio. — Tu parlerai. Io resterò attaccato al tuo braccio e terrò la lingua penzoloni fuori della bocca. Così faremo tutti e due la figura degli idioti.

— Ti ringrazio — disse Charles; ma non aveva il tono offeso. Avanzò con Raven fino al cancello e suonò.

Immediatamente quattro cervelli furiosi lanciarono quattro imprecazioni diverse, ma tutte efficaci. Erano menti di esseri normali. Non c’era un solo mutante tra loro.

Ma era una cosa logica. Come individuo senza talenti, dotato solo di un cervello eccezionale, Thorstern si serviva di individui in possesso di facoltà paranormali, ma preferiva rifuggire la loro compagnia. Quindi, era molto probabile che le persone attorno a lui, quelle che abitavano nel castello, fossero esseri normali, scelti per meriti di lealtà, di fiducia e di servilismo.

Sotto questo riguardo, il padrone del castello nero si manteneva al livello del più basso dei servitori. Tutti gli esseri umani normali, intelligenti o ignoranti, guardavano i paranormali di traverso, e cercavano di tenerli il più lontano possibile. Era una reazione psicologica naturale, basata sull’intimo complesso d’inferiorità dell’Homo Odierno alla presenza incomoda di quello che poteva essere l’Homo Futuro. Le forze terrestri controllate da Carson e da Heraty avrebbero potuto sfruttare quell’istintivo antagonismo per mettere in difficoltà gli avversari… ma questo avrebbe portato a un accentuarsi delle divisioni umane proprio quando si mirava a una umanità unita.

Inoltre, aizzare le masse di esseri comuni contro la potente minoranza dei mutanti sarebbe stato come fomentare una rivolta simile alle lotte razziali di molto, molto tempo prima. Era un movimento che poteva sfuggire ad ogni controllo ed estendersi molto più del desiderato. Anche la Terra aveva alcuni suoi mutanti.

Un essere comune, dalle guance mal rasate, uscì da una porticina che si apriva nella grossa parete e andò a sbirciare attraverso le sbarre del cancello. Era un tipo tarchiato, dalle spalle quadrate, pieno di collera, ma abbastanza disciplinato da nascondere la sua ira.

— Chi volete?

— Thorstern — disse Charles con disinvoltura.

— Per voi è il signor Thorstern - corresse l’altro. — Avete un appuntamento?

— No.

— Senza appuntamento, non riceve nessuno. È molto occupato.

— Noi non siamo nessuno — disse Raven. — Noi siamo qualcuno.

— Non ha nessuna importanza. È un uomo che ha sempre molto da fare.

— Se ha molto da fare vorrà riceverci senza perdere altro tempo — disse Charles.

La guardia corrugò la fronte. Aveva un quoziente d’intelligenza che si aggirava sul settanta, e si lasciava guidare più che altro dal suo fegato. Non voleva usare il telefono per consultare un superiore, dato che forse gli sarebbe giunto un rimprovero. Luì voleva soltanto trovare una scusa ragionevole per allontanare i seccatori. Aveva vinto la prima mano di jimbo-jimbo e voleva ritornare immediatamente alla sua partita.

— Be’ — insistette Charles in tono bellicoso — volete farci aspettare fino alla prossima settimana?

Sulla faccia dell’altro comparve l’espressione disorientata della persona che si vede costretta a prendere una decisione. La scusa plausibile che stava cercando sembrava stranamente introvabile. Rimase con gli occhi fissi alle due persone oltre il cancello, accigliato.

Forse doveva fare qualcosa. I molti affari trattati da Thorstern portavano al castello gli individui più strani, a volte proprio durante la notte. Alcuni erano stati ammessi, altri no. Ed era capitato di aver fatto passare vagabondi e tipi strambi e di aver respinto persone dall’aria importante. Comunque, lui aveva il compito di badare al cancello, non quello di giudicare le persone che venivano a bussare.

Sì inumidì le labbra. — Come vi chiamate?

— I nostri nomi non hanno nessuna importanza — disse Charles.

— Di cosa vi occupate?

— Questa invece è una cosa molto importante.

— Accidenti, non vorrete che riferisca un discorso strampalato come questo!

— Provate — suggerì Charles.

La guardia rimase un attimo a guardare prima uno e poi l’altro, infine tornò verso la porticina e scomparve. I suoi compagni che si trovavano nella piccola stanza lo accolsero con un coro di domande. Le grosse pareti soffocavano il suono delle voci, ma l’onda dei pensieri giunse con chiarezza fin oltre il cancello.

“Non potevi sbrigarti? Ci hai fatto interrompere la partita.”

“Chi sono quei deficienti che vengono a quest’ora? Fra poco sarà più buio che dentro lo stomaco di un gatto.”

“Era qualche persona importante, Jesmond?”

“Non me l’hanno detto” disse la guardia.

Staccò il ricevitore del videofono a muro e aspettò che sullo schermo apparisse la persona da lui chiamata.

Nel giro di pochi secondi, il suo volto si era fatto rosso fiamma e il tono della voce gli si era fatto tremante.

Riappese il microfono e fissò smarrito i tre compagni impazienti che sedevano attorno al tavolo. L’impulso mentale che lo aveva spinto a comunicare la visita dei due sconosciuti era scomparso, ma non se ne rese conto, come non si era reso conto della costrizione.

Uscì dalla porticina e si avviò verso il cancello. — Ehi, voi due, sentite… — Si fermò per scrutare attraverso le sbarre. In quei pochi minuti di assenza la notte si era fatta più cupa. Non si poteva vedere più in là di quattro o cinque metri di distanza. E in quel piccolo raggio visivo non c’era nessuno. Assolutamente nessuno. — Ehi! — gridò verso il muro di nebbia. Ma non giunse risposta. — Ehi! — gridò più forte.

Niente. Al suo orecchio giungevano soltanto il gocciolio dell’acqua che cadeva da una parete e i suoni ovattati della città lontana.

— Imbecilli!

Si avviò verso la porta, ma un improvviso dubbio lo fece ritornare al cancello. Esaminò il catenaccio e scosse le sbarre. Erano chiuse. Guardò verso l’alto. Quattro file di punte acuminate impedivano di scavalcare il muro. — Idioti!

Stranamente a disagio, tornò verso la porticina ed entrò. Immediatamente la bottiglia che stava sul tavolo diventò il centro della sua attenzione. Non pensò che il catenaccio, il punto più forte del cancello, poteva anche essere il più debole. Non si rese conto che anche la più complicata serratura poteva essere aperta da una chiave… o da un oggetto non materiale adatto! L’oscurità si era già fatta completa come se fosse stata tirata una gigantesca serranda attraverso il cielo del pianeta. Nello stretto e lungo cortile che si stendeva dietro il cancello, la visibilità si era ridotta a circa un metro. L’aria umida era satura dei profumi esotici che la nebbia venusiana trasportava sempre dalla foresta.