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Lo scambio di comunicazioni durò per tutto il viaggio di Raven. Un’astronave nera qua, un’altra là, cento altre dirette verso una certa zona dello spazio. I Deneb facevano questo, facevano quello, erano atterrati su certi pianeti, erano ripartiti da certi altri, venivano abilmente attirati in una direzione e ne ignoravano un’altra… sempre aiutati o ostacolati da quella diffusa moltitudine di entità remote secondo le regole sconosciute di un gioco sconosciuto.

In complesso i Deneb sembravano scartare la maggior parte dei pianeti. Alcuni a prima vista, altri dopo una breve permanenza. E continuavano le ricerche. Con metodo o senza, setacciavano il cosmo alla ricerca di quello che non potevano trovare. Una sola cosa si poteva stabilire con sicurezza: erano incurabilmente agitati.

Rayen passò il tempo ad ascoltare i discorsi che provenivano dalle grandi profondità dell’infinito o a osservare attraverso l’oblò anteriore lo spiegamento delle stelle. Di tanto in tanto spalancava gli occhi in estasi, e sulla sua faccia compariva un’espressione di curiosa avidità. Tutti i pensieri riguardo Thorstern, Wollencott, Carson ed Heraty erano stati accantonati. Le loro ambizioni e le loro rivalità, paragonate agli eventi in corso altrove avevano assunto un’importanza submicroscopica.

“I Deneb hanno setacciato centomila menti prima di capire che non avevano abbastanza tempo per esaminarne cinquecento milioni. Così se ne sono andati, ignoranti come al loro arrivo.”

“…sono rimasti per tre interi circumsolari. Hanno ridacchiato di fronte ai nostri razzi, se ne sono fatti prestare un paio per giocarci e ce li hanno restituiti con tanti ringraziamenti. Ma quando avete abbattuto quell’incrociatore che vi avevano messo alle calcagna, si sono infuriati davvero e sono decollati come…”

“Per una ragione che solo loro conoscono, si stanno dirigendo verso Bootes. Meglio che vi prepariate a riceverli!”

“… Laethe, Morcin, Elstar, Gnosst, Weltenstile, Va, Perie e Klain. Su ogni pianeta ci sono dai duemila ai diecimila Deneb, e tutti cercano minerali rari. Trattano gli abitanti come animali inutili. Fino a questo momento…”

“Nove astronavi stanno scendendo. Avanzano pieni di sospetto, come al solito.”

Erano messaggi che potevano venire ascoltati solo da menti naturalmente adatte. Nessun cervello comune avrebbe potuto captarli. E nessuna mente di Deneb.

Erano messaggi che parlavano di astri solitari, di pianeti, di asteroidi vaganti. E ne parlavano in tono familiare, come se fossero stati strade di una città. Riferirono migliaia di pianeti, ma non nominarono mai né la Terra, né Marte, né Venere, né qualche altro pianeta del Sistema Solare.

Era inutile parlare di questi mondi, perché il loro momento non era ancora venuto.

Due scafi a sei posti della polizia si staccarono dalla Luna nel tentativo di seguire l’astronave rubata. Ma non ebbero fortuna. Raven si tuffò verso la Terra alla massima velocità, come se dovesse percorrere ancora una distanza di cinquanta anni luce, e quando ebbe gli inseguitori a una certa distanza saettò di lato, scomparendo dietro la faccia della Terra. Quando i suoi inseguitori oltrepassarono a loro volta la curva terrestre, Raven era ormai atterrato e l’astronave si era persa in uno scenario che dodici paia d’occhi non potevano certo scrutare.

Lo scafo riposava su una distesa rocciosa dal quale avrebbe potuto ripartire senza recare danno a proprietà di Terrestri. Raven si portò vicino ai reattori che si stavano raffreddando e si mise a studiare il cielo. Ma gli scafi della polizia non comparvero neppure all’orizzonte. Con tutta probabilità stavano inutilmente perlustrando una zona forse a seicento chilometri più a est o a ovest.

Raven raggiunse una strada di campagna ed entrò nella fattoria che aveva visto mentre atterrava. Per telefono chiamò dal più vicino villaggio un taxi antigravità, che arrivò immediatamente. Un’ora dopo si trovava al comando del controspionaggio terrestre.

Con la faccia lunga e lugubre come sempre, Carson gli fece cenno di sedere e congiunse le mani, quasi in atto di preghiera. Poi gli parlò con la mente.

— Siete peggio di un terribile mal di testa. In una settimana mi avete dato più lavoro di quanto faccio normalmente in un mese.

— E che ne dite del lavoro che avete dato a me?

— Non deve essere stato tanto difficile, a giudicare dalla rapidità con cui l’avete svolto. Siete uscito di qui e siete tornato con la cravatta dritta e senza un solo graffio. Nel frattempo avete molestato o spaventato uomini importanti. Inoltre, avete infranto ogni legge del codice, e io dovrò coprire le vostre malefatte. Il cielo sa come.

— Non esagerate — disse Raven. — Alcune leggi non le ho infrante. Per esempio, non mi sono mai messo a distillare tambar sulle colline. Comunque vorrei sapere se siete disposto a proteggermi. Le pattuglie di polizia di stanza sulla Luna mi hanno inseguito benché fossi a bordo di uno scafo del Consiglio.

— Rubato — precisò Carson, e indicò un grosso pacco di documenti che stava sulla scrivania. — Avete commesso infrazioni con più disinvoltura di quanta ce ne voglia per bere un bicchier d’acqua. Ora cercherò di accomodare anche la faccenda dell’astronave. Ma non preoccupatevi. Tutta la responsabilità sarà mia. Certi pensano che io sia al mondo per questo. Devo trovare il modo di far sembrare che si è trattato di una appropriazione ufficialmente autorizzata. — Si grattò il mento, poi guardò Raven con aria mesta. — E non venite a dirmi che avete fracassato lo scafo nell’atterraggio. Dove l’avete lasciato?

Raven glielo disse. — Sarei atterrato direttamente all’astroporto, ma i due scafi della polizia mi hanno fatto cambiare idea. Sembrava che mi volessero arrestare. In questi ultimi tempi c’è stata fin troppa gente che mi voleva mettere le mani addosso.

— Manderò un pilota a prendere l’apparecchio. — Carson scostò con rabbia le carte che aveva davanti. — Grane, grane. Su questo tavolo arrivano soltanto delle grane.

— Per venire da Venere a qui c’è voluto un po’ di tempo, anche se mi trovavo a bordo di uno scafo superveloce. E così non ho notizie degli ultimi avvenimenti. Quali sarebbero queste grane?

— La settimana scorsa abbiamo ucciso due uomini che cercavano di far saltare un grosso ponte. Erano due Marziani. Il giorno dopo è saltata in aria una centrale elettrica. Dieci città sono rimaste senza luce e tutte le industrie entro un raggio di centocinquanta chilometri sono rimaste bloccate. Sabato abbiamo trovato un ingegnoso dispositivo alla base di una diga. È stato tolto appena in tempo. Se fosse esploso, le conseguenze sarebbero state disastrose.

— Ma non hanno…

— D’altra parte — continuò Carson, senza badare all’interruzione — gli scienziati hanno provato che l’esplosione della Baxter è quasi certamente dipesa da un incidente autentico. Dicono che il carburante, in certe condizioni eccezionali, diventa altamente instabile. Affermano comunque di aver già trovato il modo di impedire catastrofi analoghe.

— Questa è una cosa interessante.

Carson fece un gesto d’impazienza. — Io ricevo i rapporti, e devo considerare ogni disastro come una vera e propria opera di sabotaggio, fino al momento in cui non mi si viene a provare il contrario. Siamo ostacolati dall’impossibilità di distinguere all’istante l’incidente dovuto a! caso da quello dovuto a sabotaggio. Non possiamo neppure liberarci degli elementi sospetti. Teniamo ancora in carcere otto uomini catturati nella base sotterranea. Sono tutti Marziani e Venusiani. Personalmente li farei deportare e negherei loro il visto di ingresso. Ma è impossibile. Legalmente sono Terrestri, capito?

— Già, è un guaio. — Raven si protese sulla scrivania. — Mi state dicendo, con questo, che la guerra continua?

— No. È certamente continuata fino alla fine della settimana scorsa, ma forse adesso è finita. — Carson guardò interrogativamente Raven. — L’altro ieri Heraty è venuto a dirmi che tutte le nostre preoccupazioni sono terminate. E da quel momento non sono più avvenuti sabotaggi. Io non so cosa abbiate fatto. Comunque, è stata un’azione efficace, se quello che dice Heraty è vero.