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— È molto sleale da parte loro — dichiarò Horst, con assoluta indifferenza. — Dopo tutto ciò che il vostro paese ha fatto per la Danimarca…

— Potete dirlo forte! — Baxter lanciò una rapida occhiata all’orologio. Era tutto d’oro, con un numero straordinario di pulsanti e lancette. — Mi farete pervenire una relazione tra una settimana. Stesso giorno e stessa ora. Dovreste riuscire a scoprire qualcosa di più.

Schmidt gli porse il foglio con i nomi. — Avete detto che volevate fare una fotocopia. E poi c’è la faccenda di… — Aveva la mano tesa, con il palmo in su, e, prima di ritirarla, si permise un sorriso significativo.

— Il denaro. Ditelo chiaro e tondo, Horst. Denaro. Non c’è di che vergognarsi. Tutti lavoriamo per il denaro. È il denaro che tiene in movimento gli ingranaggi. Torno subito.

Baxter prese il foglio e uscì dalla porta che dava nell’ufficio attiguo. Schmidt rimase seduto, immobile, senza interessarsi minimamente alla scrivania o all’armadietto dell’archivio, posti contro la parete. Sbadigliò e ruttò rumorosamente, facendo poi schioccare le labbra con aria disgustata. Prese due pastiglie bianche da uno scatolino di plastica che teneva in tasca, e le masticò. Infine Baxter tornò e gli restituì il foglio, accompagnato da una busta lunga, senza nessuna scritta. Schmidt intascò tutte e due le cose.

— Non li contate? — domandò Baxter.

— Siete un uomo d’onore. — Schmidt si alzò. Col suo vestito blu, le pesanti scarpe nere e i calzoni larghi, dai risvolti tanto capaci che sembravano ingoiare i piedi, rappresentava il classico tipo dell’Europa Centrale. Baxter inarcò le sopracciglia ma non disse nulla. Poi Schmidt prese dall’attaccapanni sciarpa e cappotto, entrambi dello stesso tessuto scuro e rozzo di cui era fatto il cappello a larghe tese, e se ne andò senza più dire parola, dalla porta che si apriva sul corridoio grigio e impersonale. Non c’era nessun nome, sopra quella porta. Solo il numero 117. Invece di dirigersi verso l’anticamera, percorse tutto il corridoio, poi scese una rampa di scale che portavano alla biblioteca del Servizio Informazioni degli Stati Uniti. Una volta là, senza neanche leggerne i titoli, prese due libri dallo scaffale più vicino alla porta. Mentre i volumi venivano segnati dal bibliotecario, lui si avvolse bene nel suo cappotto. E quando uscì in Østerbrogade, pochi minuti dopo, camminò per un poco dietro un tizio che pure portava dei libri. Poi l’altro svoltò a destra e lui, a sinistra. Passò con aria indifferente davanti al cimitero di Garnisons, proseguendo quindi per la stazione della metropolitana di Østerport.

Una volta dentro la stazione, si servì di tutti i servizi che essa offriva, uno dopo l’altro. Comprò il giornale all’edicola presso l’entrata, girandosi per vedere chi veniva dietro di lui. Andò alla toilette, in fondo all’edificio, poi infilò libri e giornale in un armadietto automatico, e intascò la chiave. Scese una scala che portava ai treni, e, sebbene fosse proibito attraversare i binari, riuscì a risalire poco dopo attraverso un’altra scala. Nel frattempo, gli era venuta sete, e andò a riempirsi un bicchiere di Carlsberg al distributore automatico. Bevve in piedi, davanti a uno degli alti tavolini. Evidentemente tutte quelle manovre ottennero il risultato desiderato, perché, dopo essersi asciugato le labbra col dorso della mano, Schmidt uscì dalla porta posteriore della stazione e percorse non passo vivace Østbanegade, costeggiando i binari, dove questi emergevano dalla galleria nella luce del sole invernale. Al primo incrocio svoltò a sinistra e camminò lungo l’altro lato del cimitero. Era solo nella strada.

Quando se ne fu assicurato si guardò intorno liberamente e oltrepassò gli alti cancelli di ferro battuto dell’ambasciata sovietica.

6

— Ja, ja — disse il capitano Nils Hansen al telefono. — Jeg skal nok tale med hende. Tak for det. — Sedette, tamburellando con le dita sull’apparecchio mentre aspettava. L’uomo che si era presentato semplicemente come Skou, se ne stava in piedi, guardando fuori dalla finestra la luce grigia del freddo pomeriggio invernale. Si udì il rombo lontano dei motori, mentre uno dei grossi aerei rullava sulla pista.

— Salve, Martha — continuò Nils, in inglese. — Come va? Bene. No, sono a Kastrup, dove sono atterrato poco fa. Un bel vento di coda proveniente da Atene ci ha fatto arrivare presto. Il guaio è che devo ripartire subito… — Annuì e prese un’aria decisamente infelice.

— Senti, cara, tu hai perfettamente ragione, e io la penso come te, ma non possiamo farci assolutamente niente. Le autorità hanno deciso così. Ora non posso pilotare perché ho volato già troppe ore, ma mi ci portano in aereo. Uno dei piloti, uno svedese, è a letto con l’appendicite, a Calcutta. Devo partire col prossimo volo, me l’hanno riservato propria ora. Dormirò e passerò un’altra notte a Oberoi Grand, così sarò pronto per domani. Bene… Meno di quarantotto ore, direi. Mi spiace quanto te, di non poter venire al pranzo! Di’ agli Overgaards che sto piangendo a calde lacrime al pensiero di perdere le loro ghiottonerie… Invece dell’ottima selvaggina scandinava dovrò mangiarmi quell’orribile curry che corrode l’intestino… E starò male per una settimana. Naturalmente, skat, sentirò la tua mancanza. Mi farò pagare un premio e ti comprerò qualcosa di carino. Sì… okay… ciao.

Nils riappese e guardò con evidente disgusto la schiena di Skou.

— Non mi va di mentire a mia moglie — disse.

— Davvero spiacente, capitano, ma non si poteva evitare. Questione di sicurezza, sapete. Premunitevi oggi, e il domani si guarderà da sé. — Lanciò un’occhiata al suo orologio. — L’aereo per Calcutta sta per partire e voi dovete essere a bordo. Avete una prenotazione in un albergo di quella città, ma non potrete ricevere telefonate. Tutto predisposto fino nei minimi particolari. È uno stratagemma necessario, ma innocuo.

— Perché necessario? Voi spuntate dal nulla, mi portate in questo ufficio, mi mostrate delle lettere firmate da personaggi importanti che mi chiedono di collaborare, tra cui quella del comandante delle Forze Aeree di Riserva, mi strappate la promessa di aiutarvi, mi convincete a mentire a mia moglie… ma in realtà non mi dite niente! Che diavolo sta succedendo?

Skou si guardò intorno nella stanza, come se fosse tappezzata di innumerevoli apparecchi spia, e si limitò a portarsi un dito alle labbra.

— Se potessi, ve lo direi. Non posso. Ma tra poco saprete tutto. Adesso… possiamo partire? Vi porterò la borsa.

Nils l’afferrò prima che l’altro potesse impadronirsene e si alzò, calcandosi in testa il berretto dell’uniforme. Era alto uno e novantadue, senza scarpe: ora, in completa uniforme, con tanto di berretto e impermeabile, diventava talmente voluminoso da riempire quasi completamente il piccolo locale. Skou aprì la porta, e Nils lo seguì. Uscirono dalla porta posteriore dell’edificio, dove li aspettava un tassì. Il motore della Mercedes era già acceso e, non appena furono saliti, l’autista abbassò la bandierina e partì senza che nessuno gli desse istruzioni. Non appena fuori dall’aeroporto, voltarono a destra allontanandosi da Kastrup.

— Interessante — disse Nils, guardando fuori dal finestrino. Non era più arrabbiato, ora: non riusciva mai a restare irritato per molto tempo. — Invece di dirigerci verso Copenaghen e la sua vita brillante, puntiamo a sud su quella isoletta coltivata a patate. Che cosa possiamo trovare di interessante, in questa direzione?

Skou si protese verso il sedile anteriore, allungò un braccio e lo ritirò stringendo in mano un soprabito pesante e un berretto scuro. — Volete essere tanto gentile da levarvi il cappotto e il berretto dell’uniforme e da indossare questi? Sono certo che i pantaloni non verranno identificati come appartenenti a un pilota della SAS.