— Cappa e spada, perbacco! — disse Nils, sfilandosi a fatica il cappotto nello spazio ristretto del sedile posteriore. — Suppongo che questo tassista dall’aria tanto onesta sia al corrente di tutto, eh?
— Certo.
Dal sedile anteriore spuntò allora una valigetta dove entravano giusti giusti i capi appena tolti. Nils sollevò il bavero, si tirò il berretto sugli occhi e abbassò la testa.
— Ecco. Così ho abbastanza l’aria da cospiratore? — E non poté trattenersi dal ridere. Skou non condivideva la sua allegria.
— Vi prego di non fare niente che possa attrarre l’attenzione su di noi. Questo è molto importante, ve lo posso dire.
— Ci credo.
Proseguirono in silenzio, attraversando un paesaggio di campi arati di fresco che attendevano le semine di primavera. Il villaggio di Dragør non era lontano, e Nils guardò con sospetto i vecchi edifici di mattoni rossi. Non si fermarono, ma si diressero al porto.
— La Svezia? — domandò Nils. — Saliamo sulla nave traghetto?
Skou non si curò di rispondere e l’auto oltrepassò lo scivolo del traghetto, puntando verso il porto. Là erano ormeggiate alcune imbarcazioni da diporto, oltre a una motolancia di discrete dimensioni.
— Seguitemi, prego — disse Skou. E afferrò la borsa di Nils, prima che questi facesse in tempo a prenderla. Poi si diresse verso la lancia. Nils lo seguì docilmente, domandandosi in quale imbroglio stesse per immischiarsi. Skou salì sull’imbarcazione e mise le borse nella cabina; poi fece segno al pilota di salire a bordo. L’uomo che sedeva al volante fingendo di ignorare tutta la faccenda, accese il motore.
— Addio — disse Skou. — Credo che viaggerete molto comodamente, lì dentro.
— Ma, dove…?
Skou non rispose e cominciò a sciogliere gli ormeggi. Nils si strinse nelle spalle, poi si chinò per passare attraverso la porta della cabina.
Si lasciò cadere sulla panca che stava nell’interno e malgrado la scarsa luce che filtrava attraverso i piccoli oblò, si accorse di non essere solo.
— Buon giorno — disse alla figura infagottata che sedeva all’estremità della panca, dirimpetto alla sua. E ricevette in cambio una risposta impersonale. Quando i suoi occhi si furono adattati alla penombra, si accorse che al piede dell’uomo c’era una valigia e che anche lo sconosciuto indossava un cappotto nero e un berretto scuro.
— Cos’è questa storia? — chiese Nils, ridendo. — A quanto pare, hanno beccato anche voi. Stessa uniforme.
— Non so di che cosa stiate parlando — replicò l’altro freddamente, strappandosi di testa il berretto e ficcandolo in tasca.
Nils si spostò lungo la panca per metterglisi di fronte.
— Naturale. Quello Skou è veramente misterioso. Però ha poca fantasia, quando si tratta di travestimenti. Scommetto che vi hanno prelevato in gran fretta per un lavoro segreto, e vi hanno scodellato qui.
— Come fate a saperlo? — fece l’altro, sedendosi più eretto.
— Fiuto. — Nils si levò il berretto e lo indicò. Poi guardò meglio in faccia il compagno di viaggio. — Ma dove vi ho già visto? Forse a qualche festa, o su qualche rivista? Non siete quello del sommergibile che collaborò al salvataggio di un 707, al largo della costa? Carlsson, Henriksen o qualcosa del genere.
— Henning Wilhelmsen.
— Io mi chiamo Nils Hansen.
Dopo le presentazioni, si strinsero la mano e all’improvviso la tensione diminuì. Faceva caldo nella piccola cabina, e Nils si sbottonò il cappotto. Il motore pulsava regolarmente, mentre si staccavano dalla riva.
Wilhelmsen guardò l’uniforme dell’altro passeggero.
— Non è singolare? — commentò. — Un comandante della marina e un pilota della SAS che se ne vanno a spasso per l’Øresund su una vecchia carcassa come questa. Che cosa vorrà dire?
— Forse la Danimarca possiede una portaerei di cui noi non sappiamo niente!
— E allora, io che c’entro? Dovrebbe essere una portaerei sommergibile, ma in tal caso ne avrei senz’altro sentito parlare. Che ne dite di berci qualcosa?
— Il bar non è aperto.
— Chi lo dice? — Wilhelmsen tirò fuori da una tasca laterale una fiaschetta ricoperta di cuoio. — Il motto dell’equipaggio di un sottomarino è: Siate sempre pronti.
Nils fece schioccare involontariamente la lingua mentre il liquido scuro veniva versato nella tazza di metallo. — Non posso bere, se devo volare nelle prossime dodici ore.
— Sarà molto improbabile, direi. A meno che questa carcassa non metta fuori un paio di ali. E poi, questa è roba della marina; assolutamente analcolico.
— Accetto l’offerta.
Il liquore li tirò su di morale. Dopo aver ronzato intorno all’argomento per un poco, si scambiarono le rispettive informazioni, ma scoprirono soltanto di non sapere niente. Erano diretti verso un luogo imprecisato, per ragioni ignote. Guardarono il sole che si andava abbassando, e di comune accordo dichiararono che l’unico lembo di terra danese situato in quella direzione era l’isola di Bornholm, e che, con quell’imbarcazione leggera, non potevano certo raggiungerla. Mezz’ora dopo, il loro interrogativo ebbe risposta: il motore della lancia si spense e gli oblò di tribordo si oscurarono all’improvviso.
— È sicuramente una nave — disse Henning Wilhelmsen sporgendo la testa dalla porta. — La Vitus Bering.
— Mai sentita nominare.
— Io sì. È una nave dell’Istituto della Marina e ci sono stato anche a bordo. L’anno scorso, quand’era nave appoggio del Blaeksprutten, il piccolo sottomarino sperimentale che io stesso ho collaudato.
Alcuni passi rimbombarono sul ponte e un marinaio guardò dentro, chiedendo il bagaglio. Glielo diedero e lo seguirono su per la scaletta. Un ufficiale della nave li pregò di seguirlo nel quadrato, poi fece strada. Là c’erano ad aspettarli più di dodici militari in uniforme, rappresentanti di tutte le forze armate, e quattro tipi in borghese. Nils ne riconobbe due: un uomo politico che una volta aveva volato sul suo aereo come passeggero, e il professor Rasmussen, vincitore del Premio Nobel.
— Sedete, signori — disse Ove Rasmussen. — Ora vi spiegherò perché siamo tutti qui riuniti.
All’alba del mattino seguente erano nel Baltico, in acque internazionali, a cento miglia da terra. Arnie aveva dormito male: non aveva la stoffa del marinaio, e il rollio della nave l’aveva tenuto sveglio. Arrivò sul ponte per ultimo, e raggiunse gli altri che guardavano come il Blaeksprutten veniva estratto dalla stiva.
— Ha l’aria di un giocattolo — disse Nils Hansen. Il gigantesco pilota, pur portando ancora il berretto della SAS, indossava ora, come tutti gli altri, un paio di stivaloni di gomma, un maglione, e pesanti pantaloni di lana, adatti al tagliente vento artico. Era una giornata invernale, con le nubi basse e l’orizzonte vicino.
— Non è un giocattolo, ed è più grande di quello che sembra — osservò Wilhelmsen, calorosamente. — Con un equipaggio di tre uomini, può ancora portare un paio di osservatori. Si tuffa bene, i comandi sono buoni, raggiunge un’ottima profondità…
— Però mancano le eliche — disse Nils, cupo, ammiccando agli altri presenti. — Devono essere saltate via.
— Questo è un sottomarino, mica una delle vostre macchine volanti! Ha turbine idrauliche e motori a reazione, proprio come quei vostri stupidi bestioni. Ecco perché si chiama Blaeksprutten… Si muove sfruttando la spinta dell’acqua, come le seppie.
Arnie colse lo sguardo di Ove, e chiamò il collega in disparte, con un cenno.