Voltandosi verso la lavagna, aggiunse un’altra sottolineatura a Daleth.
— Per non entrare troppo nei particolari, tenterò di usare parole semplici. Tuttavia dovete capire che si tratta di una spiegazione molto approssimativa. Mi trovavo di fronte a qualcosa che non sapevo spiegare, anche se quel qualcosa era lì, senza possibilità di dubbio. Era come prendere una dozzina di uova di gallina, farle schiudere, e vederne saltar fuori un’aquila. L’aquila era lì, questo è certo, ma il come e il perché, chi lo sapeva? — Un mormorio di sollievo percorse la stanza, e si notarono perfino alcuni sorrisi, quando i presenti si accorsero finalmente di capire quello che stava dicendo. Incoraggiato, Arnie, continuò.
— Incominciai a lavorare sull’anomalia, prima ricorrendo a formule matematiche per determinarne la natura, poi facendo qualche piccolo esperimento. In fisica, come in tutto, sapere che cosa si sta cercando può essere di grande aiuto. Per esempio, è assai più facile trovare un criminale in una città se si è in possesso di una descrizione e di un nome. Una volta scoperto l’elio nello spettro solare, si scoprì la sua presenza anche qui sulla Terra. L’elio c’era sempre stato, ma era passato inosservato fino a che non si era saputo che cosa cercare. Lo stesso può dirsi dell’effetto Daleth. Sapevo che cosa cercare e trovai la risposta al mio interrogativo. Immaginai che forse sarebbe stato possibile dominare questa… — cercò affannosamente una parola adatta. — Non è il termine esatto, e non dovrei servirmene, ma per il momento chiamiamola «energia», pur tenendo sempre presente che non lo è affatto. Allestii un esperimento per dominarla, ed ottenni risultati spettacolari. Era possibile controllarla. Una volta intercettata, l’energia Daleth poteva venire modulata: questa era poco più che un’applicazione di normale tecnologia. Avete visto i risultati stamane, quando il Blaeksprutten si è alzato nell’aria. Ma questa è una dimostrazione molto modesta: non c’è motivo perché il sottomarino non possa viaggiare anche fuori dall’atmosfera, alla velocità da noi fissata.
Una mano si alzò, decisa, e Arnie annuì in quella direzione. Perlomeno qualcuno lo stava ascoltando attentamente e sentiva il bisogno di fare domande. Era un ufficiale delle forze aeree, molto giovane, per il suo grado.
— Perdonate l’interruzione, professore — disse — ma mi hanno insegnato che questo è impossibile. Voi state negando le leggi newtoniane del moto. I motori del sottomarino non hanno una potenza sufficiente per sollevare la sua massa e tenerla sospesa in aria. Avete accennato alla relatività, che è basata sulla conservazione della quantità di moto della massa-energia e della carica elettrica. Quello che è avvenuto qui deve mettere in dubbio almeno due o tre dei principi di conservazione.
— Verissimo — convenne Arnie. — Ma noi non ignoriamo questa limitazione: stiamo semplicemente usando un diverso sistema di riferimento, nel quale non sono valide. Per trovare un’analogia, vi prego di considerare l’atto di chi gira una valvola. Un piccolo peso, basta per aprire una valvola che permette al gas compresso di lasciare il serbatoio, di espandersi in un involucro e far sollevare un pallone. Un paragone anche migliore si ha immaginando voi stesso penzolante da una corda appesa a quell’involucro, alto sopra il suolo. Una pressione di un’oncia e poco più sopra una lama affilata taglia la corda, riportandovi a terra con effetti altamente drammatici.
— Ma tagliando la corda si libera l’energia cinetica immagazzinata durante la salita a quell’altezza! — sbottò l’ufficiale. — È la gravità della Terra che mi porta giù.
— Esattamente. Ed è stata la gravità della Terra liberata, che ha permesso al Blaeksprutten di volare.
— Ma è impossibile!
— Impossibile o no, è accaduto — dichiarò un ufficiale di grado superiore. — Fareste molto meglio a credere ai vostri occhi, Preben, altrimenti vi farò degradare!
Preben sedette, imbronciato, tra risate generali che si calmarono soltanto quando l’ammiraglio Sander-Lange cominciò a parlare.
— Io credo a tutto ciò che affermate circa la teoria della vostra macchina, professore — disse — e vi ringrazio di aver cercato di spiegarcela. Ma spero che non vi offenderete se dichiaro che, per me almeno, la comprensione di essa non ha grande importanza. Da molti anni ho smesso di tentare di comprendere i dispositivi complicati e le diavolerie che si sistemano sulle mie navi, e mi sono imposto di capire semplicemente a che cosa servono e come vanno usati. Potete spiegarmi le possibilità insite nel vostro effetto Daleth, cioè che cosa si potrebbe ottenere applicandolo?
— Sì, certo. Ma spero vi rendiate conto che ci sono ancora annessi molti «se». Se l’effetto potrà essere applicato, come spero e come chiarirà il prossimo esperimento con il Blaeksprutten, e se il fabbisogno di energia necessaria ad ottenere i risultati desiderati è ragionevole, avremo ciò che potrebbe essere chiamata una vera e propria propulsione spaziale.
— Che cosa volete dire, esattamente? — domandò Sander-Lange.
— Prima di tutto considerate la propulsione spaziale che usiamo attualmente: razzi a reazione, come quelli di cui è dotata la capsula sovietica che sta dirigendosi verso la Luna. I razzi si muovono applicando il principio di azione-reazione. Espellete qualcosa in una direzione e vi muoverete in quella opposta. Migliaia di tonnellate di combustibile, cioè la massa di reazione, devono essere sollevate per ogni chilo che arriva a destinazione. Un processo costoso, complesso e di uso limitato. Una vera propulsione spaziale indipendente da questo rapporto massa-carico, sarebbe funzionalmente pratico come un’automobile o una nave. E servirebbe a creare una vera e propria astronave. I pianeti diventerebbero accessibili come lo sono adesso i vari continenti del nostro mondo. Non si dovrebbe più tener conto della massa di reazione; una vera propulsione spaziale potrebbe essere tenuta costantemente in funzione, continuando ad accelerare fino al punto medio del volo, e poi invertendo la direzione e decelerando fino all’atterraggio. Questo abbrevierebbe incredibilmente il tempo necessario per raggiungere la Luna o altri corpi celesti.
— Quanto ci si impiegherebbe? — domandò qualcuno. — Potreste darci delle cifre precise?
Arnie esitò, ma si alzò Ove Rasmussen per rispondere. — Credo di potervi aiutare io. Ci ho pensato mentre stavate parlando — disse. Prese il regolo calcolatore ed eseguì rapidamente altri calcoli. — Se abbiamo un’accelerazione e una decelerazione ininterrotta di un «G», gli occupanti del veicolo non proveranno alcuna sensazione di caduta libera o di peso eccessivo. Questa sarà un’accelerazione di… novecentootto, anzi, diciamo mille, per semplicità, centimetri al secondo. La Luna dista; in media, quattrocentomila chilometri. Il risultato perciò sarebbe…
Tutti rimasero in silenzio mentre Rasmussen calcolava ancora. Controllò i risultati, aggrottò la fronte, controllò di nuovo. Dovevano essere esatti, perché alzò gli occhi e sorrise.
— Se l’effetto Daleth fornirà una vera propulsione spaziale, c’è qualcosa di nuovo sotto il sole, signori. Saremo in grado di andare da qui alla Luna in poco più di quattro ore!
Nel silenzio attonito che seguì, eseguì un ultimo calcolo.
— Il viaggio su Marte richiederà un tempo un po’ più lungo. Dopotutto, il pianeta rosso dista ottanta milioni di chilometri, quando si trova nella sua congiunzione più favorevole. Ma anche quella distanza verrà percorsa in circa trentanove ore. Un giorno e tre quarti. Non è certo molto.
Tutti erano allibiti. Ma mentre meditavano sulle prospettive aperte dall’effetto Daleth, si levò un mormorio così insistente, che Arnie dovette battere col gesso sulla lavagna per zittirli. Dopo di che gli astanti ascoltarono con attenzione estrema.