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— Ci sono molte informazioni lì dentro — rispose Schmidt. — Le notizie segrete, anche quando sono frutto di deduzioni, sono sempre notizie segrete. Ora sappiamo che gli americani sono all’oscuro quanto noi sulla faccenda di Langeliniekaj; che i loro amici dei tempi migliori, i danesi, non rivelano ai loro soci della NATO tutti i loro segreti interni; che tutti i settori delle forze armate erano interessati alla cosa. E, se osservate attentamente l’ultimo paragrafo, tovarich Shirochenka, vedrete anche che ho identificato uno dei civili che si trovavano a bordo della Isbjorn lo stesso giorno in cui vi fu tutto quel movimento. È il professor Rasmussen, Premio Nobel per la fisica. E ciò mi sembra molto interessante. Che relazione c’è tra questa faccenda e la fisica?

Lidia Shirochenka non sembrava impressionata da quelle rivelazioni. Prese da un cassetto una foto e la passò a Schmidt. — È questo, l’uomo di cui parlate?

Lui era abituato da troppi anni a controllarsi, per tradire ingenuamente le proprie reazioni, ma rimase sorpreso. Era una foto molto granulosa, evidentemente scattata con l’aiuto del teleobiettivo, in cattive condizioni di luce, ma vi si riconosceva immediatamente Ove Rasmussen, con una valigetta in mano, mentre scendeva dalla rampa di una nave.

— Sì, è la stessa persona. Dove l’avete trovata?

— Non è affar vostro. Non siete il solo a lavorare per questa sezione. Il vostro scienziato dimostra ora di avere in qualche modo a che fare con razzi e missili. Indagate a fondo su di lui. Cercate di sapere chi incontra, che cosa fa. E non riferite agli americani questo stralcio di notizia. Sarebbe poco saggio.

— Voi mi insultate! Sapete benissimo a chi sono fedele!

— Sì. A voi stesso. È impossibile insultare un «doppio agente». Sto soltanto tentando di farvi capire che sarebbe un grosso sbaglio tentare di ingannare noi come avete fatto con i vostri padroni della CIA. Per voi, la lealtà non esiste; esiste solo il denaro.

— E invece io sono estremamente leale. — Schmidt spense la sua sigaretta, poi ne tirò fuori un pacchetto nuovo e lo porse a Lidia Shirochenka. Lei alzò gli occhi e fissò l’etichetta. Erano sigarette americane, che costavano molto a Copenaghen. — Prendetene una. Io le ho con lo sconto, a circa un quinto del prezzo normale. — Aspettò che la ragazza accendesse, poi continuò: — Io sono fedele alla vostra organizzazione, perché è la cosa che più mi conviene. Parlando da professionista vi assicuro che è molto difficile ottenere informazioni segrete dall’URSS: voi avete una rigorosissima rete di servizi di sicurezza. Perciò accetto con entusiasmo le notizie, probabilmente false, che mi fornite per gli americani. Loro non scopriranno mai che sono false, perché la CIA è di un’inefficienza semplicemente schifosa e le informazioni segrete che procura al suo governo sono quasi sempre inesatte, e mi pagano benissimo per quello che faccio. Poi ci sono anche altri vantaggi minori. — Alzò la sua sigaretta e sorrise. — Tra i quali, non ultimo, è il compenso che ricevo da voi per i piccoli segreti americani che vi rivelo. La trovo una sistemazione molto vantaggiosa. E poi, da quando Beria…

— Sono cambiate molte cose dai tempi di Beria — interruppe la ragazza, brusca. — Un ex agente delle SS quale siete voi, non può certo invocare pretesti morali. — Lui non rispose e lei si voltò a guardare, fuori dalla finestra, il lungo edificio bianco appena visibile sotto la pioggia leggera. Indicò col dito.

— Eccoli là, Schmidt. Oltre il cimitero. C’è qualcosa di molto simbolico in questo. Ci avete mai pensato?

— Mai — disse lui freddamente. — Avete più intuito di me, in queste cose, tovarich Shirochenka.

— Be’, non dimenticatelo. Siete un individuo che sorvegliamo con molta attenzione. Cercate di arrivare più vicino a quel professor Rasmussen.

Si interruppe perché la porta si apriva. Un giovanotto in maniche di camicia entrò in fretta e le porse una striscia di carta staccata da una telescrivente. Lei lesse rapidamente e i suoi occhi si dilatarono.

— Boshemoi! — mormorò, scossa. — No, non può essere vero…

Il giovane annuì in silenzio, con la stessa espressione di incredulità stupefatta.

— Quante ore sono, ormai? — chiese Arnie.

Ove lanciò un’occhiata al foglio appeso sopra il tavolo del laboratorio. — Più di duecentocinquanta, e di attività ininterrotta. Sembra che tutti i difetti siano stati corretti.

— Lo spero davvero. — Arnie ammirò lo splendido apparecchio cilindrico che riempiva quasi completamente la gabbia. Era tutto ornato di fili e di saldature elettroniche, e a fianco aveva un grande pannello di comando. Funzionava silenziosamnete, eccezion fatta per un basso e quasi impercettibile ronzio. — È un bel passo avanti — soggiunse.

— Furono gli inglesi a compiere la maggior parte del lavoro di fondo, negli ultimi anni del sessanta. Io mi interessai perché riguardava parte delle mie ricerche. Ero riuscito ad ottenere plasmi di duemila gradi, ma solo per periodi di tempo limitati, poche migliaia di microsecondi. Poi quei tipi di Newcastle sul Tyne cominciarono a usare plasma di elio-cesio a millequattrocentosessanta gradi centigradi, con un campo elettrico interno. Aumentavano la conduttività del plasma fino a duecento volte. Utilizzai la loro tecnica per costruire il Piccolo Hans, che vedete qui. Non sono ancora riuscito a graduare l’effetto, ma credo di vedere una via d’uscita. Comunque il Piccolo Hans lavora bene e produce costantemente alcune migliaia di volt; dunque non posso lamentarmi.

— Hai fatto miracoli! — Arnie ringraziò con un cenno del capo una delle assistenti di laboratorio che gli porgeva una tazza di caffè. Poi cambiò posizione, con aria pensierosa. — Graduata, questa potrebbe essere la fonte di potenza che ci serve per una vera nave spaziale. Un generatore atomico pressurizzato, del tipo ora impiegato nei sottomarini e nelle navi di superficie, risponderebbe alle nostre esigenze. Niente combustibile, niente ossidante. Ma avrebbe un aspetto negativo.

— Il raffreddamento — disse Ove, soffiando sul suo caffè bollente.

— Esattamente. Si può ottenerlo con l’acqua del mare, in una nave, ma è difficile trovare qualcosa del genere nello spazio. Suppongo che si potrebbe costruire un’unità irradiante esterna…

— Sarebbe molto più grande della nave stessa!

— Sì, ci credo. Il che ci porta al tuo generatore a fusione. Molta forza, non troppo spreco di calore da neutralizzare. Mi permetti di aiutarti?

— Magnifico. Fra tutti e due sono certo che… — Si interruppe, distratto da un mormorio proveniente dall’estremità del laboratorio. — Che c’è, laggiù?

— Scusate, professore. È solo una notizia. — La ragazza gli porse l’edizione di un quotidiano.

— Che cosa è successo?

— I russi. Si tratta del loro volo intorno alla Luna. Salta fuori che è qualcosa di più di una ricognizione intorno al satellite. Una capsula di atterraggio si è posata sul Mare della Tranquillità.

— Gli americani non ne saranno troppo soddisfatti — disse Ove. — Finora hanno considerato la Luna come un lembo d’America.

— Il guaio è — continuò la ragazza porgendogli il giornale — che dopo l’allunaggio qualcosa si è guastato nel modulo lunare. Non possono ripartire.

L’articolo diceva soltanto questo, aggiungendo la foto di tre sorridenti cosmonauti, scattata poco prima del lancio. Nartov, Shavkun e Zlotnikov. Un colonnello, un maggiore e un capitano in successione gerarchica perfetta. Tutto era stato organizzato a perfezione: riprese televisive, servizio giornalistico, decollo, primo stadio, secondo stadio, trasmissioni radio e ringraziamenti al compagno Lenin per aver reso possibile il viaggio, l’accostamento, l’allunaggio… Erano scesi sulla superficie della Luna, ed erano vivi, ma qualcosa non aveva funzionato. Dai rapporti non si capiva bene che cosa fosse accaduto, ma il risultato appariva evidente. Gli uomini erano là, intrappolati. Per sempre. Sarebbero vissuti soltanto finché fossero durate le bombole dell’ossigeno.