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— Ricevuto. Eseguiremo. Ci seguite?

— Affermativo.

— Manderete il segnale di inversione?

— Affermativo.

— Passo e chiudo. — Staccò l’energia. — Sentito? Le cose non potrebbero andar meglio.

— Ho ridotto l’accelerazione del cinque per cento — disse Arnie. — Sì, tutto fila alla perfezione.

— Qualcuno vuol bere una birra? — domandò Ove. — Ne hanno caricato un’intera cassa, là dietro. — Passò una lattina a Nils, ma Arnie rifiutò.

— Sbrigatevi — disse. — Non siamo lontani dal momento dell’inversione e non posso garantire che non si verifichi un po’ di confusione. Potrei ridurre a zero la spinta, prima di voltare la nave, ma così verremmo a trovarci in caduta libera per un poco, e preferirei evitarlo, se possibile. A parte le nostre preferenze individuali, le attrezzature non sono state progettate per una manovra del genere. Cercherò invece di far ruotare la nave di centootto gradi, mantenendo la spinta in pieno. Dopo di che, cominceremo a decelerare.

— Giusto — disse Nils, guardando attraverso il periscopio e facendo una correzione precisa — ma… la nostra rotta? Dovremo forse servirci di quel tubo del gas sul ponte? Quello che ha gettato Henning nella disperazione per aver dovuto praticare un foro nello scafo resistente alla pressione?

— Esatto. C’è un sistema ad obiettivo grandangolare, con un congegno di mira ottico inserito dentro.

— Del tipo usato sugli aerei da combattimento per sparare?

— Proprio così. Terrete in centro la stella come prima. Non vedo difficoltà.

— Neanch’io. — Nils si guardò intorno nel sottomarino trasformato e scosse la testa. — Qualcuno può prendere il mio posto per un attimo? Devo andare là in fondo. La birra, sapete…

L’inversione fu compiuta senza inconvenienti, e gli astronauti non si sarebbero neppure accorti di stare girando se non avessero visto la luce del sole strisciare lungo il ponte e su per la paratia. Alcuni oggetti si spostarono rumorosamente, e una matita cadde sul pavimento.

Il tempo scorreva veloce. Il sole ardeva e i tre parlarono un poco delle tempeste solari e delle radiazioni di Van Alien. Queste non costituivano un serio pericolo poiché lo scafo del sottomarino era una solida barriera metallica, infinitamente più spessa delle pareti dei razzi fino ad allora lanciati.

— Avete pensato a come potremo comunicare con i cosmonauti? — domandò Ove. Se ne stava sulla soglia del compartimento macchine, da dove poteva sorvegliare il generatore a fusione e contemporaneamente parlare con i compagni.

— Sono tutti piloti — disse Nils — dunque conoscono certo l’inglese.

Ove non era d’accordo. — Se hanno volato fuori dal territorio nazionale — disse. — Dentro i confini dello stato, la Flotta Aerea dell’Unione Sovietica usa il russo. Soltanto nei voli internazionali è necessaria la conoscenza dell’inglese per il controllo radio. Ho trascorso sei mesi all’università di Mosca, e così sono in grado di farmi capire. Però speravo che voi sapeste parlare meglio di me.

— Io parlo solo ebraico, inglese, yiddish o tedesco — disse Arnie.

— Io soltanto inglese, svedese e francese — dichiarò Nils. — Credo proprio che tocchi a voi, Ove.

Come la maggior parte degli europei con istruzione a livello universitario, Arnie e compagni erano convinti che tutti dovessero conoscere almeno un’altra lingua oltre alla propria. Gli scandinavi ne parlavano facilmente anche due o tre. E sembrava impossibile che i russi non facessero altrettanto.

Il calcolatore seguiva il loro volo, e quando le quattro ore furono quasi completamente trascorse, i viaggiatori vennero informati da Terra che potevano azionare il radioaltimetro perché si stavano avvicinando al punto in cui avrebbe potuto funzionare. La sua portata massima era di centocinquanta chilometri.

— Ricevo un segnale a frange — disse Nils, emozionato. — La Luna è laggiù. — Dopo l’inversione non avevano più visto il satellite, che stava sotto la loro chiglia.

— Avvisatemi quando saremo a circa cento chilometri dalla superficie — disse Arnie. — Inclinerò la nave, così potremo sbirciare attraverso gli oblò laterali.

La tensione aumentava, ora, mentre il sottomarino spaziale si abbassava rapidamente verso la Luna, ancora invisibile sotto lo scafo.

— L’altimetro si svolge piuttosto rapidamente. — Il pilota, abituato a dominarsi, parlava in tono calmo, non rivelando la tensione che lo lacerava.

— Porto la decelerazione a due «G» — disse Arnie. — Tenetevi.

Provarono una strana sensazione, come se all’improvviso stessero diventando più pesanti: gli arti li trascinavano verso il basso, e il mento premeva sul petto. Le poltroncine scricchiolarono e il respiro degli uomini diventò faticoso. Nils allungò le mani verso i comandi e gli sembrò di avere dei pesi attaccati alle braccia. Pesava oltre centottanta chili, ora. — Ridurre la velocità di discesa — disse. — Ci avviciniamo ai cento chilometri. Ridurre la velocità di discesa fin quasi a zero.

— Resteremo fermi a questa quota, mentre cercheremo la zona che ci interessa — disse Arnie. Sentiva il proprio cuore battere forte, pompando faticosamente il sangue nella gravità raddoppiata. Ma quando ebbe regolato i comandi la sensazione di peso sparì, e sembrò a tutti di fluttuare liberamente. Il Blaeksprutten se ne stava immobile: erano entrati nel campo di attrazione gravitazionale della Luna, corrispondente a un sesto di quello terrestre. — Ora giriamo! — disse.

Gli oggetti liberi rotolarono sul pavimento e andarono a sbattere rumorosamente contro la parete, mentre la nave si inclinava; gli uomini si aggrapparono ai braccioli delle poltroncine. Una luce bianca entrò attraverso l’oblò.

— Ih, du Almaegtige! — mormorò Nils. La Luna era lì. E riempiva tutto il cielo. A neanche centottanta chilometri sotto di loro. Butterata, segnata, morta e senz’aria… un altro mondo!

— Allora ce l’abbiamo fatta — esclamò Ove. — Fatta! — gridò, sempre più eccitato. — Per Diana, abbiamo attraversato lo spazio con questa carcassa e raggiunto la Luna! — Si slacciò la cintura e si levò in piedi, barcollando, sforzandosi di camminare nella bassa gravità. Scivolò, fu lì lì per cadere, e andò a sbattere contro la paratia mentre cercava di guardar fuori dall’oblò.

— Diamine, guardate! Copernico, il Mare delle Tempeste! Dove diavolo è il Mare della Tranquillità? A est, in quella direzione.

Si riparò con la mano gli occhi dalla luce riflessa, e aggiunse: — Ancora non lo vediamo, ma dev’essere là. Oltre la curva dell’orizzonte.

Silenzioso come una foglia che cade, il Blaeksprutten ritornò in posizione orizzontale, poi ruotò lungo un asse invisibile. Gli uomini dovettero appoggiarsi all’indietro per trovare l’equilibrio, mentre la prua si abbassava e la Luna riappariva, stavolta proprio di fronte.

— È un angolo sufficiente perché possiate «navigare»? — domandò Arnie.

— Sì. Da un aereo di linea la visibilità è peggiore.

— Allora mantengo la nave in questa posizione e a questa altezza, e passo a voi i comandi per gli spostamenti in avanti e di lato.

— Si parte… — canterellò Nils allegramente, mentre afferrava la leva di comando.

I tre cosmonauti scattarono sull’attenti, come meglio potevano, nello spazio ristretto del piccolo modulo. Le ultime note dell’Internazionale si spensero e l’altoparlante della radio si riempì di scariche.

— Riposo — ordinò Nartov. E gli altri due si lasciarono cadere sulle rispettive cuccette, mentre lui afferrava il microfono e lo metteva in funzione. — A nome dei miei compagni cosmonauti, vi ringrazio. Loro sono qui, dietro di me, e sono d’accordo con me nel raccomandare a voi, compagni cittadini dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di non rammaricarvi. Questa è una vittoria per noi tutti: per il presidente del partito, per i membri del Presidium, per i lavoratori delle fabbriche dove sono state costruite le parti del razzo e della capsula montate poi da…