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L’attenzione di Zlotnikov cominciò a vagabondare: non era mai stato amante dei discorsi, lui. Durante i ventotto anni trascorsi sulla Terra aveva dovuto ascoltarne per ore e ore. E adesso… anche sulla Luna! Erano un male inevitabile, come la neve d’inverno e la siccità d’estate. Che ti andasse o meno, non si poteva far niente. Meglio prendersela con filosofia, facendo appello al famoso fatalismo slavo. Era uno dei migliori piloti da combattimento, e uno dei pochi cosmonauti; e, per mantenersi a quella altezza, valeva ben la pena di fare qualsiasi sacrificio. I discorsi erano ancora il minore dei mali. Neppure la morte gli sembrava un prezzo troppo alto da pagare. Non aveva rimpianti; il gioco valeva la candela. Però avrebbe desiderato di potersene andare con qualche discorso in meno. La voce del colonnello ronzava, monotona, e lui guardò verso l’oblò, ma si affrettò a staccarne lo sguardo, perché almeno una parvenza di cortesia era indispensabile. Tuttavia il colonnello gli voltava le spalle, e col pugno destro chiuso segnava il tempo al forte ritmo delle proprie parole. Doveva essere un buon discorso. Perlomeno, al colonnello piaceva. Zlotnikov si girò ancora verso l’oblò… Un punto luminoso che si muoveva piano, in alto, attrasse bruscamente la sua attenzione. Una meteora? Che si spostava così lentamente?

— … e quanti morirono in battaglia per conservare la libertà alla nostra grande terra? L’Armata Rossa non esitò mai ad abbracciare la morte per un bene migliore, per la pace, la libertà, la vittoria. I cosmonauti sovietici dovrebbero forse ritirarsi davanti alle loro responsabilità, ignorare le realtà di… — Il colonnello si scosse rabbiosamente di dosso la mano indiscreta che gli stava battendo sulla spalla e continuò: — …le realtà del volo spaziale, della complessità…

— Colonnello!

— …La complessità del programma, le grandi macchine, le responsabilità… — Disturbarlo nel bel mezzo del suo discorso… Ma era impazzito, quel bastardo? — …a tutti i lavoratori sovietici che hanno reso possibile…

Il colonnello si girò di scatto, per zittire con uno sguardo di fuoco Zlotnikov. Ma lo sguardo seguì invece il dito di questi, puntato verso l’oblò e si spinse oltre il vetro spesso, attraverso il paesaggio senz’aria e tormentato dai crateri, fino al piccolo sottomarino che stava lentamente scendendo nel cielo pieno di stelle.

Il colonnello tossì, spalancò la bocca, si schiarì la gola e fissò con una specie di orrore il microfono che stringeva in mano. — Termineremo questo collegamento più tardi — disse bruscamente, girando l’interruttore. — Che cosa diavolo è quello? — tuonò.

Per ovvie ragioni, nessuno degli altri due rispose. Apparivano scossi, e se ne stavano lì, senza parlare. Si udivano soltanto il sibilo estremo dell’aria impoverita che usciva dalla griglia e, alla radio, il mormorio della musica lontana che qualcuno, laggiù sulla Terra, aveva ordinato alla banda di suonare per riempire l’imprevisto silenzio dei cosmonauti.

Lentamente il sottomarino si abbassò fino a una cinquantina di metri dalla capsula, e restò sospeso un po’ sopra il terreno ghiaioso, prima di posarsi definitivamente.

Aveva alcuni fili di alghe marine, completamente secche, impastate sulla chiglia, e sottili strisce di ruggine a poppa.

— Danesi? — mormorò Shavkun, indicando la bandiera dipinta sulla torretta di comando. — È danese, no? — Zlotnikov annuì, in silenzio. Poi si accorse che la sua mascella pendeva, inerte, e si affrettò a richiudere la bocca. La radio frusciò, sibilò e al di sopra della musica si udì una voce forte che parlava in pessimo russo.

— Hello, Vostok IV, mi sentite? Qui, Blaeksprutten. Siamo atterrati vicino a voi. Mi sentite? Passo.

Nartov fissò il microfono che stringeva in mano e fece l’atto di girare l’interruttore. Poi si trattenne, scosse la testa come per schiarirsi le idee e allungò una mano verso i comandi della radio. Solo dopo aver ridotto al minimo l’erogazione di energia, aprì il trasmettitore. Per un senso istintivo di difesa, preferiva che Mosca non ascoltasse il dialogo.

— Qui Vostok IV. Colonnello Nartov. Chi parla? Chi siete? Che cosa fate qui… — Il colonnello si interruppe bruscamente, sentendo che stava per mettersi a balbettare.

A bordo del Blaeksprutten, Ove ascoltò e annuì. — Contatto stabilito — disse agli altri. — Meglio sistemare quella tenda mentre io li invito a venire quassù. — Accese di nuovo la radio. — Govoreetye ve po Angleeskee? — domandò.

— Sì, parlo inglese.

— Benissimo colonnello — disse Ove, passando con un certo sollievo a quella lingua. — Ho il piacere di comunicarvi che siamo venuti qui per riportarvi sulla Terra. Nella vostra trasmissione di pochi minuti fa avete affermato che state tutti bene. È vero?

— Certo, ma…

— Benissimo. Se volete infilarvi le tute spaziali…

— Sì, ma dovete dirmi…

— Prima la cosa più importante, colonnello, per favore. Pensate di potervi infilare la tuta spaziale e venire qui per un minuto? Verrei io, ma sfortunatamente non abbiamo scafandri. Spero che non vi spiaccia.

— Vengo immediatamente. — Il messaggio terminò in un tono deciso.

— Non si può dire che il colonnello avesse l’aria felice del tipo che sta per essere salvato — commentò Nils, infilando una corda negli anelli di una grossa incerata distesa sul ponte. Era grigia e sciupata dalle intemperie, con un forte odore di pesce che le aleggiava attorno, forse perché era stata riposta vicino a campioni di fauna sottomarina, nella stiva della Vitus Bering.

— Felice lo sarà senz’altro — replicò Ove, aiutando gli altri a sollevare la pesante incerata. — Ma credo che gli ci vorrà un po’ per abituarsi all’idea. Era nel bel mezzo di una specie di discorso di addio, quando lo abbiamo interrotto.

Infilarono le funi anche negli anelli fissati al soffitto e sollevarono la tela, formando così una barriera grinzosa che tagliava a metà la piccola cabina nascondendo alla vista l’unità Daleth e il generatore a fusione.

— Meglio non assicurare questo lembo — disse Ove. — Devo passare di lì per arrivare al compartimento macchine.

— Non mi sembra un riparo molto efficace — dichiarò Nils.

— Basterà — replicò Arnie. — Questi uomini sono degli ufficiali e si presume che siano anche gentiluomini… E noi stiamo salvandogli la vita. Non credo che ci procureranno fastidi.

— Penso proprio di no… — Nils guardò attraverso l’oblò. — Ehi, il loro boccaporto sta aprendosi… e arriva qualcuno. Probabilmente il colonnello.

Nartov aveva indossato la tuta spaziale con movimenti meccanici, ignorando le ipotesi eccitate degli altri due cosmonauti, poi si era levato in piedi, lasciando che loro gli controllassero e sigillassero lo scafandro. Ora, mentre percorreva a balzi gli ultimi metri sulla superficie della Luna, si stava completamente riprendendo: ciò che accadeva era senza dubbio reale. Non stavano più per morire. Lui avrebbe rivisto Mosca, sua moglie, la famiglia… Se quello strano veicolo era arrivato fin sulla Luna, poteva sicuramente tornare alla Terra. I particolari gli sarebbero stati spiegati in seguito; ora doveva preoccuparsi soprattutto di salvare la vita ai suoi uomini. Avanzò a testa alta verso il sottomarino, mentre la polvere e i sassolini sollevati dai suoi grossi stivali ricadevano immediatamente sulla superficie priva di atmosfera.