Lassù, dietro l’oblò rotondo, si scorgeva un uomo: portava un berretto a visiera, e indicava col dito verso il basso facendogli anche dei cenni col capo. Chi diavolo poteva essere?
Quando il colonnello si avvicinò, notò una scatola con un pesante coperchio, che era stata saldata frettolosamente allo scafo. Sopra stava scritto TENEØOH, in neri caratteri cirillici. Svitò la grossa vite che fermava il coperchio, aprì e prese il telefono che stava dentro. Premette con forza il microfono contro il casco, in modo che le vibrazioni della sua voce vi passassero attraverso; riusciva anche a capire l’uomo che stava all’altra estremità.
— Mi sentite, colonnello?
— Sì. — Il cavo era piuttosto lungo, e facendo un passo indietro Nartov, poté vedere l’interlocutore, dietro l’oblò.
— Bene. Sono il capitano Nils Hansen, delle Forze Aeree Danesi, nonché pilota senior della SAS. Vi presenterò gli altri quando salirete a bordo. Siete in grado di raggiungere quel ponte?
Il colonnello guardò in su, socchiudendo gli occhi per difendersi dal riflesso. — Ora no, ma possiamo assicurare una fune, lavorando tutti insieme. O qualcosa del genere. La gravità è minima.
— Non dovrebbe essere difficile. Una volta sul ponte, vedrete un boccaporto non sigillato in cima alla torretta di comando. La torretta è grande appena quanto basta a contenere tre uomini, e dovrete entrare tutti in una volta, poiché non è una vera e propria camera stagna. Entrate e sigillate il boccaporto alla sommità meglio che potete. Poi picchiate tre colpi sul ponte. Lasceremo entrare l’aria. Ce la fate?
— Sì, certo.
— Potete portare con voi tutto l’ossigeno che vi è rimasto? Non vorremmo restarne a corto durante il viaggio di ritorno. Dovremmo averne a sufficienza, ma se ce n’è altro, è meglio.
— Lo faremo. Ci resta un solo cilindro, aperto da poco.
— Un’ultima cosa, prima che ve ne andiate. Abbiamo a bordo… un’attrezzatura segreta, nascosta dietro una semplice tenda. Vorremmo pregarvi di non avvicinarvi a essa.
— Avete la mia parola — disse il colonnello, ergendosi orgogliosamente. — E i miei ufficiali vi daranno la loro. — Guardò l’uomo dalla faccia lunga che gli sorrideva attraverso l’oblò e, per la prima volta, la grandezza di quel salvataggio in extremis lo colpì. — Vorrei ringraziarvi a nome di noi tutti, per averci salvati.
— Noi siamo lieti di trovarci qui. E lietissimi di avervi aiutato. Ora…
— Torneremo tra pochi minuti.
Quando fu vicino alla capsula, il colonnello vide due facce che lo fissavano attraverso l’oblò, una accanto all’altra e schiacciate contro il vetro, come quelle di bambini davanti alla vetrina di una pasticceria. Fu sul punto di sorridere, ma si trattenne.
— Indossate le tute — disse, quando ebbe attraversato la camera stagna. — Ce ne andiamo a casa. Quei danesi ci portano con loro. — Poi accese la radio e afferrò il microfono, per porre fine alle domande incoerenti dei compagni. La banda lontana ora suonava un’altra marcia, che si affievolì e si spense quando partì la sua chiamata.
— Sì, Vostok IV. Vi sentiamo. C’è qualche difficoltà? Il vostro ultimo messaggio è stato interrotto. Passo.
Il colonnello aggrottò la fronte, poi abbassò l’interruttore.
— Qui colonnello Nartov. Questo è il messaggio finale. Stacco e chiudo la comunicazione, ora.
— Colonnello, sappiamo che cosa provate. Tutta la Russia è con voi in spirito. Ma il generale desidera…
— Dite al generale che mi metterò in contatto con lui più tardi. Non via radio. — Inspirò profondamente, tenendo sempre il dito sopra l’interruttore. — Ho il suo numero del Cremlino. Lo chiamerò dalla Danimarca. — Spense e staccò l’energia. Avrebbe dovuto dire di più? Che cosa avrebbe potuto dire? Altri paesi erano in ascolto…
— Al diavolo! — esclamò bruscamente. Poi si rivolse ai suoi due compagni, allibiti. — Maggiore, prendete i giornali di bordo, i film, le registrazioni, i campioni e metteteli dentro una scatola. Zlotnikov, chiudete il cilindro dell’ossigeno e scaricatelo dalla capsula perché lo portiamo con noi. Per ora respireremo con la riserva delle tute. Nessuna domanda? — Nessuno rispose e lui chiuse seccamente il finestrino del casco.
— Eccoli che arrivano — gridò Nils, alcuni minuti dopo. — L’ultimo è appena sceso e hanno chiuso la camera stagna. Sono carichi come muli e uno di loro ha perfino una macchina fotografica. Ehi, sta fotografandoci!
— Lasciateli fare — disse Ove. — Non potranno capire niente dalle foto. Dovremmo procurarci qualche campione lunare anche noi. Prima che salgano a bordo, mettetevi ancora in comunicazione telefonica col colonnello e ditegli che vogliamo qualche pezzo di roccia, e un po’ di polvere da portare a casa.
— Campioni raccolti dalla prima spedizione lunare danese. Ottima idea, dato che noi non possiamo uscire. Come va?
— Bene — disse Ove, aprendo una bottiglia di akvavit e posandola accanto ai piccoli bicchieri, sul tavolo delle mappe. — Avremmo dovuto pensare alla vodka, ma ci scommetto che si accontenteranno anche di questa. — Aprì una delle scatole di smørrebrød preparate quel mattino, e ne estrasse le tartine. — L’aringa è ancora fresca. E c’è anche del paté di fegato.
— Quello me lo mangio io, se non si sbrigano — disse Nils, adocchiando il cibo con avidità. — Ecco che vengono.
E salutò allegramente con la mano le tre figure cariche che avanzavano a fatica sulla superficie lunare.
12
Il ministro degli affari esteri sfogliò gli appunti presi durante il colloquio col primo ministro, e trovò finalmente quello che desiderava.
— Rileggete l’ultima frase, per favore — disse.
— Il primo ministro apprezza la vostra cortesissima comunicazione e… — La segretaria voltò la pagina del blocco su cui stava stenografando, e aspettò con la matita alzata.
— …E incarica me di ringraziarvi per i voti da voi espressi. Egli considera estremamente cortese l’offerta di metterci a parte di tutte le vostre progredite tecnologie riguardanti l’ingegneria spaziale e la missilistica, nonché la proposta di servirci della vostra estesa rete di stazioni di controllo intorno al globo. Tuttavia, poiché noi potremmo contribuire poco o nulla alla realizzazione dei programmi di missilistica, egli ritiene poco corretto stringere qualsiasi accordo, per il momento… Basta così. I soliti saluti e la conclusione. Vi spiace rileggere tutto?
Fece compiere alla poltroncina un mezzo giro, e guardò fuori dalla finestra mentre la segretaria leggeva. Era buio, e nelle strade era ormai cessato da un pezzo l’affollamento delle ore di punta. Le sette, troppo tardi per la cena. Si sarebbe dovuto fermare a prendere qualcosa, prima di arrivare a casa. Annuì mentre le parole rotolavano nel vuoto, una dopo l’altra, con la loro pomposa risonanza. Tutto bene. Grazie tante, ma niente grazie. I sovietici sarebbero stati felici di rinunciare a tutti i miliardi spesi inutilmente nei missili, pur di poter dare un’occhiata alla propulsione Daleth. Ma non l’avrebbero avuta vinta. E neanche gli americani, nonostante avessero in apparenza maggiori probabilità: legami di fraternità, derivanti dalla comune appartenenza alla NATO e l’obbligo di mettere al corrente dei segreti della difesa gli altri membri dell’organizzazione. Era stato uno spettacolo vedere l’ambasciatore americano farsi sempre più rosso, mentre il primo ministro contava sulle dita dieci importanti piani difensivi statunitensi di cui i danesi non erano stati messi a parte…
— Perfetto — disse il ministro, quando la ragazza ebbe finito.
— Devo batterla a macchina, adesso, signore?