— Siamo arrivati — annunciò Skou, uscendo dal veicolo.
Gli altri scesero e lo seguirono dentro l’edificio, su per una rampa di scale. Un poliziotto in uniforme salutò e tenne aperta la porta per lasciarli passare. Dentro c’era odore di caffè appena fatto, misto al fumo aspro dei sigari. Due uomini se ne stavano seduti con le spalle all’uscio e guardavano fuori da una grande finestra che dava sul cantiere. Si alzarono e si voltarono. Erano Arnie Klein e un tipo alto, di mezza età, con un panciotto nero attraversato da una catena d’oro di un vecchio orologio.
— Questo è Leif Holm, il direttore del cantiere — presentò Arnie.
Furono portati del caffè, che fu accettato e dei grossi sigari Jutland, che gli ospiti rifiutarono. Holm ne accese uno per sé ed espulse una enorme nube di fumo, che rimase sospesa all’altezza del soffitto.
— Là, signori — disse poi, puntando il sigaro come fosse un’arma mortale verso la finestra — là, sullo scalo di costruzione centrale, voi vedete il futuro della Danimarca!
Un rovescio di pioggia si avventò sul porto, nascondendo prima i merli di Kronborg Slot, cioè il castello di Amleto, poi la mole tozza del traghetto svedese di Hälsingborg e gettando infine una coltre nebbiosa sulle centine e sulle lamiere rosse delle navi in costruzione prima di sparire verso l’entroterra. Quindi un sole pallido e bagnato fece capolino. Seguendo la direzione indicata da Holm, Nils e Ove guardarono la nave sgraziata, quasi brutta, che stava per essere terminata. Aveva una strana forma come di un tubo stiracchiato fino a ottenere una figura oblunga. Prua, poppa e fiancata erano arrotondate: la struttura superiore, che ora si stava montando sul ponte in sezioni prefabbricate, era bassa e aerodinamica.
— Questo è il nuovo hovercraft, nevvero? — domandò Nils. — Il Vikingepuden. Costruito per la linea Esbjerg-Londra. Dovrebbe essere il più grande del mondo. — E si domandò che cosa c’entrasse quel veicolo col futuro della Danimarca.
— Esatto — dichiarò Holm. — Gli si è fatta molta pubblicità sui giornali, più che per i traghetti britannici della Manica. Ma nessuno ha detto che lavoravamo ventiquattro ore su ventiquattro, che sono stati effettuati cambiamenti importanti nel piano di costruzione e che, al varo, la nave sarà battezzata col nome di Galatea e navigherà su mari sconosciuti, proprio come la sua omonima. E se anche non si tufferà nel profondo degli oceani, sarà però adatta alle altezze vertiginose. — Posò un dito sul naso e ammiccò cordialmente.
— Non vorrete dire…
— Sì, sì…! La Luna, i pianeti, le stelle… Chissà? Mi dicono che i professori, qui presenti, hanno pensato alla propulsione, mentre noi del cantiere non si stava con le mani in mano. Comunque i cambiamenti effettuati rispetto al progetto originario sono imponenti. Rinforzi interni, boccaporti a tenuta stagna, camere stagne… non starò a scocciarvi con i particolari. Basta dire che tra poche settimane sarà varata la prima vera e propria nave spaziale: la Galatea.
Ora tutti lo guardavano con nuovo e impaziente interesse. La linea arrotondata, assurda in una nave normale, era invece ideale per uno scafo resistente alla pressione: la mancanza di una prua e di una poppa chiaramente segnate non aveva importanza nello spazio. Quel rugginoso toro sgraziato anticipava le forme del futuro.
— C’è un’altra cosa, che voi dovreste sapere, signori. Tutte le varie operazioni del programma, e ciò che sarà reso pubblico solo dopo il varo di Galatea, sono state trasferite ad un altro ministero: al ministero dello spazio. E io ho l’onore di essere il facente funzione del ministro, al momento. Ho perciò il dovere, invero piacevole, di domandare al capitano Hansen se è disposto a trasferirsi dalle Forze Aeree alle Forze Spaziali, naturalmente col grado equivalente e senza alcuna perdita di diritti di anzianità. Se accetterà, il suo primo compito sarà quello di ufficiale comandante su questa splendida unità. Che ne dite, capitano?
— Naturalmente, naturalmente! — rispose Nils, senza esitare. E non staccò più lo sguardo dalla nave, neanche quando gli amici gli si fecero intorno per congratularsi.
Martha non era stata del tutto sincera con Nils, quando lo aveva lasciato alla stazione di Birkerød: non andava affatto a comprarsi dei vestiti, quel giorno, ma aveva un appuntamento a Copenaghen. Era una piccola, candida bugia, una delle pochissime che gli aveva detto da quando si erano sposati. Sette anni! Doveva essere una specie di primato. Ma la cosa più assurda era che non aveva proprio motivo di nascondere a Nils ciò che stava per fare: non si trattava di una decisione importante.
Un complesso di colpa, ecco tutto pensò fermandosi al semaforo e poi svoltando a sud, in Kongevej. Soltanto il mio irrazionale complesso di colpa! Nel cielo si andavano addensando le nubi e le prime gocce di pioggia cominciavano a spiaccicarsi sul parabrezza. Che farebbe il mondo moderno senza Freud che offre una spiegazione per tutte le cose? Stava laureandosi in psicologia all’università di Columbia, quando aveva incontrato Nils per la prima volta. Era venuta a trovare i genitori a Copenaghen, dove suo padre si trovava per lavoro, e il dottor Charles W. Greene, epidemiologo e membro influente dell’Organizzazione per la Salute Mondiale, aveva ospitato la figlia durante le vacanze estive. Lei… era una ragazza tutta braccia e gambe, che portava solo gonne di tweed. C’erano state feste e amici… Un’estate splendida… E Nils Hansen! Grande come una montagna e bello come un Apollo nella sua uniforme della SAS. E di una forza quasi primitiva, elementare. Risate, allegria… e si era ritrovata a letto con lui, quasi senza accorgersene. Non aveva avuto il tempo di pensare, né di rendersi conto dell’accaduto. La cosa più buffa era, in un certo senso, che poi si erano sposati. La sua proposta l’aveva veramente sorpresa. Nils le piaceva, era praticamente il primo uomo con cui fosse andata a letto (i compagni di università non contavano!) ma le era sembrato un po’ strano pensare anche solo lontanamente di legarsi a uno straniero, a un tipo di un altro paese, di un’altra lingua. Tuttavia la Danimarca le sembrava simile agli Stati Uniti sotto molti aspetti. E poi, ci abitavano i suoi genitori e Nils e gli amici parlavano inglese. Era stato tutto così divertente, così rapido… e si erano sposati.
Però non era mai stata completamente sicura del motivo per cui l’aveva scelta. Avrebbe potuto prendersi qualsiasi ragazza gli fosse saltato il ticchio di volere… anche ora doveva sempre scrollarsene qualcuna di dosso, alle feste. Invece aveva scelto lei. Amore romantico diceva a se stessa, ogni volta che si sentiva su di giri, Roba da novella del «Ladies’ Home Journal!». Ma quando si metteva a piovere per settimane e lei restava sola, se ne andava a trovare gli amici o a fare delle compere per sfuggire alla depressione. Allora cominciava a temere che lui l’avesse sposata soltanto perché aveva raggiunto l’età in cui gli uomini danesi si sposano, e aveva trovata lei a portata di mano. E una moglie americana dà un certo prestigio, in Danimarca.
Probabilmente la verità stava al centro di questi due estremi, oppure comprendeva parzialmente tutti e due. Col passar degli anni, Martha capiva che nessuna cosa è mai semplice come si spera. Ora era una donna sposata da parecchio: una casalinga un po’ annoiata, a volte, anche se non infelice.
Tuttavia restava ancora cittadina americana… e forse proprio lì faceva capolino il complesso di colpa. Se amava veramente Nils, come era sicura di amarlo, perché non aveva mai compiuto quel passo e preso la cittadinanza danese? A dire il vero non ci aveva mai pensato molto, e tutte le volte che i suoi pensieri si avvicinavano a quell’argomento, si affrettava a deviarli in un’altra direzione… Non le riusciva difficile.