Guidava distrattamente da un po’, e ad un tratto si accorse che la pioggia si era fatta più fitta e che inondava il parabrezza. Si fermò e azionò il tergicristallo.
Perché non si decideva a cambiare? Quello era forse un sottile legame che la teneva unita alla sua famiglia, alla sua vita precedente? Forse non era ancora sicura del loro matrimonio? Sciocchezze! Nils non ne parlava mai, non ricordava che avesse mai toccato quel punto. Tuttavia lei provava sempre un certo rimorso. Teneva il passaporto in regola, figurando così straniera residente in Danimarca, e una volta all’anno un sorridente agente della polizia criminale ne prolungava la validità con un timbro. Forse era la faccenda della polizia criminale che la disturbava? No, quello non era che un organismo governativo come gli altri: non c’entrava affatto. Ora all’ambasciata americana volevano sapere qualche particolare sul suo passaporto, e lei stava appunto andandoci. Ma non l’aveva detto a Nils.
L’ora di punta era terminata e il traffico era scarso, così arrivò all’ambasciata prima delle dieci. Non c’era alcun parcheggio vicino, e dovette lasciare l’auto due isolati più in su. La pioggia si era fatta leggera e insistente, la classica pioggerellina danese capace di durare parecchi giorni senza interruzione. Martha si infilò le soprascarpe di plastica che teneva sempre pronte nell’auto, e aprì l’ombrello.
L’ingresso, come al solito, era deserto e la ragazza che stava dietro la scrivania la guardò col freddo distacco delle impiegate, mentre lei chiudeva l’ombrello gocciolante e cercava il foglietto di carta nella borsetta.
— Ho un appuntamento — disse, spiegando il foglio e scuotendone via le briciole di tabacco. — Con un certo Baxter, per le dieci.
— Da quella porta, allora. Poi a sinistra, stanza centodiciassette. Quasi in fondo al corridoio.
— Grazie.
Martha scosse con cura l’ombrello sopra lo zerbino, ma si lasciò ancora dietro una scia di goccioline sul pavimento di marmo. La porta della stanza 117 era spalancata, e un uomo con gli occhiali dalla pesante montatura nera stava chino sopra la scrivania, osservando un foglio con profonda concentrazione.
— Signor Baxter?
— Sì, venite, prego. Permettetemi di prendere il vostro ombrello e il cappotto. Che giornate! A volte mi sembra che tutta quanta!a Danimarca sia sul punto di andarsene alla deriva sull’oceano. — Infilò l’ombrello nel cestino della carta straccia e appese il soprabito all’attaccapanni. Poi chiuse la porta. — Allora, voi siete…?
— Martha Hansen.
— Naturalmente. Vi aspettavo. Sedete, prego.
— È per il mio passaporto — disse lei, sedendo e posando in grembo la borsetta.
— Se potessi vederlo…
Lei glielo porse e rimase a guardare l’uomo che voltava le pagine aggrottando la fronte per lo sforzo di interpretare alcuni dei visti macchiati e dei timbri posti dalla dogana. Poi Baxter annotò qualcosa sopra un blocco giallo.
— A quanto sembra, vi piace viaggiare, signora.
— È per via di mio marito: è pilota su aerei di linea. I biglietti sono praticamente gratis, così giriamo parecchio.
— Siete una donna fortunata. — Baxter chiuse il passaporto e guardò Martha inarcando le sopracciglia al di sopra della montatura degli occhiali. — Ma… vostro marito non è forse Nils Hansen, il pilota danese? Quello di cui abbiamo letto nei giornali?
— Sì. C’è qualcosa che non va, nel passaporto?
— No, niente affatto. Voi siete davvero fortunata, con un marito simile! Quel ciondolo che portate al collo, viene dalla Luna? È quello di cui parlavano i giornali?
— Sì. Volete vederlo? — Si sfilò la catena e gliela porse. Era un comune pezzo di roccia vulcanica cristallina, montata così, al naturale, in una reticella d’argento. Una pietra venuta da un altro mondo.
— Ho sentito dire che vi hanno offerto una cifra con molti zeri, per questa. È meglio che stiate attenta. — Le rese il ciondolo e soggiunse: — Volevo semplicemente controllare il passaporto. Ci sono state alcune complicazioni con un altro che ha quasi lo stesso numero del vostro. Dobbiamo accertarci, sapete. Spero che non vi sia seccato troppo.
— No, certo.
— Perdonate, ma sapete come succede. Cose del genere non capiterebbero mai, a casa nostra. Invece un americano che vive all’estero… Ci vogliono sempre una quantità di documenti. — Batté il passaporto due o tre volte sulla carta assorbente, ma non accennò affatto a renderlo.
— La mia patria è qui, ora — disse lei, schermendosi.
— Naturalmente. Dopo tutto vostro marito è danese, anche se voi restate sempre cittadina americana.
Le sorrise, poi guardò la pioggia, fuori dalla finestra. Lei contrasse le mani sulla borsetta e non rispose. Quando l’uomo si voltò, Martha si accorse che aveva un sorriso vuoto, per nulla cordiale, che non diceva nulla: se ne stava lì, con quei grossi occhiali che gli davano un’aria da gufo intellettuale.
— Dovete essere una fedele cittadina americana — continuò Baxter — se non avete mai pensato di rinunciare alla vostra cittadinanza, pur essendo sposata… da sette anni, vero?… a un cittadino di un paese straniero. Non vi sembra?
— Io… io non ho mai dato molta importanza a queste cose — rispose Martha, con un filo di voce. Intanto pensava… Perché non gli dico di badare ai fatti suoi, prendo il passaporto e me ne vado di qui? Forse perché quello le aveva detto forte ciò che lei aveva sempre segretamente saputo.
— Non c’è di che vergognarsi. — Il sorriso riaffiorò. — La fedeltà verso il proprio paese sarà forse fuori moda, ma ha ancora qualcosa di bello. Non lasciate che nessuno vi convinca del contrario. Non c’è niente di male nell’amare il proprio marito come lo amate voi è nell’essere sua moglie, pur mantenendo la cittadinanza americana che Dio vi ha dato. Nessuno potrà mai strapparvela, non rinunciateci mai! — E sottolineò il suo punto di vista severamente, battendo il passaporto contro la scrivania.
Martha non sapeva che cosa rispondere e rimase zitta. L’altro annuì, come se il silenzio di lei equivalesse a un consenso.
— Ho letto sui giornali che è stato praticamente vostro marito a condurre la nave a propulsione Daleth sulla Luna. Dev’essere un uomo coraggioso.
Martha non poté fare a meno di annuire.
— Ora tutto il mondo guarda alla Danimarca, in testa nella gara spaziale. È un po’… buffo che questa piccola nazione abbia superato gli Stati Uniti. Con tutti i miliardi che abbiamo speso e gli uomini che sono morti! Molti americani pensano che non è giusto: in fin dei conti è stata l’America a liberare la Danimarca dai tedeschi, e sono il denaro, gli uomini e le attrezzature americane che mantengono forte la NATO e difendono questo paese dall’invasione russa! Forse quei nostri concittadini non hanno tutti i torti. La gara spaziale è un’impresa gigantesca e la piccola Danimarca non può affrontarla da sola; non siete d’accordo?
— A dire la verità non saprei… Suppongo che possano farlo…
— Ah, sì? — Il sorriso era sparito. — La propulsione Daleth è qualcosa di più di una propulsione spaziale. È una forza d’importanza mondiale. E la Russia potrebbe allungare un braccio di alcuni chilometri e impadronirsene tranquillamente. Voi non volete che ciò accada, vero?
— Ma no!
— Bene. Voi siete americana. Una buona americana. Quando l’America avrà la propulsione Daleth, ci sarà la pace nel mondo. Ora vi dirò una cosa in confidenza, non ripetetela a nessuno. I danesi non la pensano allo stesso modo. Alcune fazioni di sinistra del governo di qui (dopotutto sono socialisti!) ci nascondono i dati riguardanti la propulsione Daleth. E possiamo facilmente immaginare perché, non vi pare?