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— Devo parlarti da solo.

— D’accordo. — Rasmussen si guardò intorno, e accorgendosi solo allora della presenza di Jørgensen, domando: — Dove possiamo trovare un luogo sicuro per parlare?

— Potete restare in questo ufficio, se volete. Vi posso garantire che è sicurissimo.

Entrambi accettarono, senza accorgersi della sfumatura di ironia che faceva capolino in quelle parole.

Sbattuto fuori dal proprio ufficio!… Che cosa stava accadendo? Jørgensen rimase lì per ben dieci minuti ad aspettare, in corridoio, fumando rabbiosamente la pipa e premendoci dentro il tabacco con il pollice calloso. Poi la porta si spalancò. Rasmussen comparve sulla soglia, col colletto della camicia slacciato e uno sguardo eccitato negli occhi. — Entrate! Entrate! — E quasi trascinò l’altro dentro la stanza, impaziente che la porta venisse subito richiusa.

— Dobbiamo vedere immediatamente il primo ministro! — E prima che Jørgensen, allibito, potesse rispondergli, aggiunse: — No, no! Non è il caso. A quest’ora della notte… — Cominciò a passeggiare concitato su e giù, con le mani dietro la schiena, intrecciando e sciogliendo di volta in volta le dita contratte. — Basterà farlo domani. Prima di tutto, Arnie, dobbiamo tirarti fuori di qui e portarti a casa mia. — Si fermò e fissò il responsabile locale del servizio di sicurezza.

— Chi è il vostro superiore?

— L’ispettore Anders Krarup, ma…

— Non lo conosco, non servirebbe a niente. Aspettate: il vostro dipartimento, il ministro…

— Andresen.

— Già, Svend Andresen. Te lo ricordi, Arnie?

Klein ci pensò su, poi scosse la testa.

— Il piccolo Anders! Ora deve essere notevolmente cresciuto! Era nella classe dopo la nostra, quando andavamo alla Krebs’ Skole… Quello che cadde in una buca nel ghiaccio, sul Sortedamsø.

— Non finii quel trimestre. Fu allora che andai in Inghilterra.

— Già, quei bastardi dei nazisti! Ma lui certo si ricorda di te e mi crederà sulla parola se gli dico che si tratta di una cosa importante. Tra un’ora potrai uscire di qui. Un bicchiere di snaps, e subito a nanna!

Ci volle ben più di un’ora e fu necessaria la visita del ministro Andresen, dall’aria non proprio soddisfatta, con relativo segretario svegliato in fretta e furia, prima che la faccenda fosse sistemata. Il piccolo ufficio si riempì di pezzi grossi, dell’odore della lana bagnata e del fumo dei sigari, prima che l’ultimo documento fosse debitamente timbrato e firmato… Solo allora Jørgensen rimase finalmente solo; era stanco e perplesso per gli avvenimenti accaduti durante la notte, e in testa gli rintronava ancora l’ordine che il ministro gli aveva mormorato all’orecchio dopo averlo tirato un attimo in disparte.

— Dimenticate tutto quanto è successo — aveva detto, deciso — è l’unica cosa che dovete fare. Non avete mai sentito parlare del professor Arnie Klein e, per quanto ne sapete voi, non è mai entrato nel nostro paese. Direte così a «chiunque» vi domandi qualcosa.

E chi avrebbe dovuto domandarglielo? E poi, perché tanta agitazione?

3

— Insomma, non voglio riceverli — disse Arnie, in piedi accanto all’alta finestra che dava sul parco attiguo all’università. Le querce cominciavano già a cambiare colore: l’autunno arriva presto in Danimarca. Tuttavia lo scenario di foglie d’oro e tronchi scuri stagliati contro il pallido cielo nordico era piacevolmente animato: batuffolini di nuvole bianche si muovevano con grazia dignitosa sopra i tetti di tegole rosse della città, e gli studenti si avviavano frettolosi lungo i sentieri verso le aule.

— Sarebbe tutto più facile, se tu accettassi — disse Ove Rasmussen, seduto alla grande scrivania, nel suo studio di professore, con tutti i suoi diplomi e i suoi attestati di merito incorniciati e appesi alla parete come insegne araldiche. Poi, abbandonandosi contro lo schienale della profonda sedia rivestita di cuoio, si voltò a guardare l’amico ritto accanto alla finestra.

— È davvero tanto importante? — domandò Arnie girandosi, le mani sprofondate nelle tasche del camice bianco da laboratorio. Sulla manica si notavano macchie di unto e sul polsino spiccava un foro orlato di bruno, prodotto dalla scintilla di un saldatore di rame.

— Temo proprio di sì. I tuoi soci israeliani sono impazienti di sapere che cosa ti è successo. Hanno ricostruito i tuoi spostamenti con l’aiuto di un tassista. Hanno scoperto che sei partito per Belfast con un volo della SAS, ma che non sei mai arrivato là. E poiché l’unica fermata intermedia era qui, a Copenaghen, è stato impossibile nascondere la tua attuale residenza, anche se, come mi è stato detto, il personale dell’aeroporto li ha tenuti a bada per un bel pezzo.

— Quel Jørgensen avrebbe fatto meglio a guadagnarsi lo stipendio che si mette in tasca…

— È proprio quello che ha tentato di fare. È stato tanto caparbio che per poco non è scoppiato un incidente internazionale, prima che il ministro degli interni ammettesse che eri qui. Ora insistono per parlare con te.

— E perché, poi? Sono un libero cittadino e posso andare dove mi pare.

— E tu diglielo! Si sono lasciati sfuggire oscuri accenni a un rapimento…

— Cosa? Credono che i danesi siano arabi, o qualcosa del genere?

Ove scoppiò a ridere, contorcendosi sulla sedia, mentre Arnie si avvicinava, furente, e si fermava davanti alla scrivania.

— No, niente di simile — rispose. — Sanno, per via ufficiosa, che tu sei venuto qui spontaneamente e che nessuno ti ha torto un capello. Ma sono curiosi di sapere perché lo hai fatto, e decisi a non andarsene senza avere avuto una risposta. Proprio ora c’è una commissione ufficiale al Royal Hotel. Dicono che rilasceranno dichiarazioni alla stampa, se non potranno vederti.

— Questo non deve succedere — mormorò Arnie, preoccupato.

— È quello che pensiamo anche noi. Ecco perché ti si prega di ricevere gli israeliani e di confermare che tu stai benone e che possono tornarsene a casa col prossimo volo. Nient’altro.

— Non ho alcuna intenzione di aggiungere altro! E chi hanno mandato?

— Quattro persone, ma credo che tre siano soltanto comparse. Mi sono intrattenuto con loro quasi tutta la mattina, e ho potuto constatare che l’unico che avesse una certa autorità era il generale Gev…

— Buon Dio! Proprio lui!

— Lo conosci?

— Anche troppo bene. E lui conosce me. Preferirei parlare con chiunque altro.

— Temo proprio che non ti sarà possibile. Gev è lì fuori, che aspetta di vederti. Ha dichiarato che, se non riuscirà a parlare con te, si rivolgerà immediatamente alla stampa.

— E gli puoi credere. Ha imparato a combattere nel deserto. La miglior difesa è l’attacco! È meglio accontentarli e farla finita. Ma non lasciarmi solo con lui più di quindici minuti. Sarebbe capace di convincermi a seguirlo.

— Ne dubito. — Ove si alzò e indicò la sua sedia. — Siediti lì, e metti la scrivania fra voi due. Dà sempre una certa impressione di forza. E poi, lui dovrà sedersi sulla sedia di quando ero studente, che è dura come la pietra.

— Se anche fosse un cactus, quello non farebbe una piega — rispose Arnie, depresso. — Tu non lo conosci come lo conosco io.

La porta si richiuse, e ci fu silenzio. Di quando in quando, il richiamo gioioso di qualche studente penetrava attutito attraverso i doppi vetri della finestra. Nell’interno della stanza si poteva udire distintamente il tic-tac dell’orologio di Bornholm. Arnie fissava senza vederle le proprie mani posate sulla scrivania davanti a sé, e si domandava che cosa avrebbe risposto a Gev. Doveva sbottonarsi il meno possibile.

— Una bella distanza da Tel Aviv — disse all’improvviso una voce, in un ebraico gutturale. Arnie alzò lo sguardo sbattendo le palpebre, e vide che Gev era già entrato e aveva richiuso la porta. Il generale indossava abiti borghesi, ma li portava con la rigidezza di un’uniforme militare. Il suo viso era abbronzato, solcato dalle rughe e scuro come il legno di noce: la lunga cicatrice che gli attraversava la guancia partendo dalla fronte sollevava l’angolo della bocca in un perpetuo mezzo sorriso.