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— È la solita gamba — rispose Skou. — La gamba bersaglio, che colpiscono sempre. Non è niente. Portate subito il professore all’ospedale. Che baraonda! Non riesco a capire come ci abbiano scoperto. Sarà tutto più difficile, d’ora in poi.

15

Seduto al buio sul ponte di comando, nella sua poltroncina, Nils Hansen cercava di immaginare se stesso che azionava i comandi della Galatea. Abitualmente non era dotato di molta fantasia, ma all’occorrenza sapeva raffigurarsi il veicolo che avrebbe dovuto pilotare e ne prevedeva il probabile comportamento… Aveva collaudato quasi tutti i nuovi reattori acquistati dalla SAS e gli apparecchi sperimentali delle Forze Aeree. Prima di salire su un aereo, ne studiava attentamente la pianta e le caratteristiche costruttive, entrava in un simulatore di volo e parlava a lungo coi tecnici. Cercava di conoscere nei minimi particolari il veicolo che gli veniva affidato, di apprendere tutto il possibile prima di trovarsi a tu per tu con lui, nel cielo. Non si stancava mai, non aveva fretta. Gli altri trovavano esasperante la sua pignoleria, ma Nils li lasciava dire… Una volta staccato da terra, avrebbe potuto contare solo su se stesso. Più ne sapeva, più probabilità aveva di fare un volo fortunato e di tornarsene vivo.

Ora le sue facoltà erano tese al massimo. Quel veicolo era così incredibilmente grande, i principii su cui si basava così nuovi… Tuttavia aveva già pilotato il Blaeksprutten, e quell’esperienza gli era preziosa. Ricordandosi delle difficoltà incontrate, aveva collaborato con i tecnici nella progettazione dei comandi e della strumentazione di bordo. Allungò una mano e sfiorò lievemente la leva, la stessa leva standard di un Boeing 707. Si sentì quasi a suo agio. Quella era collegata attraverso il computer alla propulsione Daleth e sarebbe stata usata per le manovre di precisione come il decollo e l’atterraggio. E poi l’altimetro, l’indicatore della velocità rispetto all’aria, quello della velocità effettiva, e molti altri dispositivi… I suoi occhi andavano dall’uno all’altro strumento senza mai sbagliare, nonostante l’oscurità.

Un grosso oblò di vetro, inserito nella parete d’acciaio davanti a lui, permetteva di vedere buona parte del cantiere e del porto. Anche se erano passate le due del mattino ed Helsingør dormiva da un pezzo, la zona intorno al cantiere era piena di movimento. Le auto della polizia incrociavano lentamente lungo la banchina e scrutavano coi loro fari nelle piccole strade laterali. Un plotone di soldati si muoveva in formazione sparsa tra gli edifici. Alcuni riflettori supplementari erano stati montati sopra le normali lampade stradali, e l’intera zona era illuminata a giorno. La motosilurante Hejren se ne stava ancorata trasversalmente nella parte più vicina del porto, con le torrette pronte a sparare.

La porta si aprì, lasciando passare il ronzìo dei motori, ed entrò il radiotelegrafista, che si diresse al suo posto. Dietro di lui veniva Skou, che saltellava appoggiandosi a una stampella. Rimase un attimo ritto accanto a Nils, lanciando un’occhiata all’imponente spiegamento di forze visibile all’esterno, poi, con una specie di grugnito di approvazione, si lasciò cadere nella poltroncina del secondo pilota.

— Lo sanno che siamo qui — disse — ma non sapranno altro. Dunque, a che punto è questa vecchia carcassa?

— Controlli su controlli… Ho fatto del mio meglio, e tecnici e ispettori hanno esaminato minuziosamente ogni parte dell’attrezzatura. Ecco qui i rapporti firmati. — Gli allungò una grossa cartelletta piena di fogli e aggiunse: — Niente di nuovo su quei figuri della settimana scorsa?

— Niente nel modo più assoluto. Equipaggiamento da sub acquistato qui a Copenaghen. Nessun segno, nessun documento. Le pistole erano tedesche, della seconda guerra mondiale. Speravamo di trovare una traccia esaminando le impronte digitali, ma ci siamo sbagliati. Ho controllato personalmente. Due esseri invisibili spuntati dal nulla.

— Allora, non saprete mai da che paese venivano?

— In fondo, non mi importa. Dopo quel putiferio, tutto il mondo sa che qui sta accadendo qualcosa. Ma che cosa, con precisione, nessuno lo sa, e io ho tenuto lontano tutti quanto basta per impedir loro di saperne di più. — Si protese per leggere il quadrante luminoso dell’orologio. — Non manca molto alla partenza. Tutto pronto?

— Tutti ai loro posti, pronti a partire quando riceveranno l’ordine. Tranne Henning Wilhelmsen. Se n’è andato a dormire, in attesa di essere chiamato.

— Meglio svegliarlo adesso.

Nils prese il ricevitore del telefono e formò il numero di Henning, che rispose subito.

— Comandante Wilhelmsen, qui.

— Ponte di comando. Per favore, presentatevi ora.

— Immediatamente.

— Là — disse Skou, indicando la strada in fondo al porto, dove erano apparsi mezza dozzina di soldati in motocicletta. — Funziona tutto come un orologio, e anche meglio! Guardate! Si trovava al castello Fredensborg, a venti minuti di distanza da qui.

Dietro le moto venivano due camion, carichi di militari, che facevano da battistrada a una Rolls Royce nera, lunghissima e lucentissima. Seguivano altri soldati. Come se quell’apparizione fosse un segnale, ed effettivamente lo era, altri camion carichi di truppe uscirono dalla caserma del castello Kronborg, dove stavano pronti in attesa. Quando il convoglio ebbe raggiunto l’ingresso del cantiere, un solido cordone di truppe lo circondò.

— E le luci di bordo? — domandò Nils.

— Potete farle accendere. Ora tutta la città sa con certezza che sta accadendo qualcosa.

Nils girò l’interruttore del quadro di comando, che si illuminò di una luce fredda. Skou si stropicciò le mani e sorrise. — Tutto come un orologio! E notate che io non do ordini a nessuno. Tutto è stato previsto. I «turisti-spie» presenti in città ora staranno cercando di scoprire che cosa succede, ma non possono avvicinarsi. Tra un po’ cercheranno d’inviare messaggi e di partire, e ci riusciranno ancor meno. A quest’ora i buoni danesi sono a letto, e non si lasciano disturbare. Ma tutte le strade sono bloccate, i treni non partono, i telefoni non funzionano. Perfino le corsie delle biciclette sono chiuse. Ogni strada e ogni sentiero, anche quelli che attraversano i boschi, sono sorvegliati.

— E non avete liberato dei falchi, per acchiappare eventuali piccioni viaggiatori? — domandò Nils, con aria innocente.

— No! Perbacco, dovevo forse farlo? — Skou sembrava preoccupato e si morse il labbro. Poi scorse il sorriso di Nils. — State solo scherzando! Non dovreste… Sono un povero vecchio e chissà… il mio orologio interno potrebbe anche fermarsi per una scossa improvvisa!

— Voi ci metterete sottoterra tutti quanti — dichiarò Henning Wilhelmsen, arrivando sul ponte. Indossava la sua uniforme migliore. — Eccomi, signore — disse salutando Nils.

— Già, naturalmente… — fece il comandante, cercando a tentoni il proprio berretto sotto il pannello. — Sedetevi al vostro posto e iniziamo il controllo prelancio.

Finalmente trovò il copricapo e se lo calcò in testa. Si sentiva a disagio, con quello. Allora se lo tolse e guardò l’emblema ricamato sulla parte anteriore: il nuovo simbolo Daleth in campo stellato. Poi, con un rapido movimento, ficcò di nuovo il berretto sotto il quadro dei comandi.

— Scopritevi — ordinò con fermezza. — Nessuno deve portare il berretto, sul ponte.

Skou si fermò sulla porta. — E così nacque la prima grande tradizione delle Forze Spaziali… — osservò, ghignando.

— E non voglio civili sul ponte di comando!!! — gridò Nils, mentre la figura zoppicante si ritirava.