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Ormai era completamente vestita, coi guanti e le chiavi dell’auto già in mano. Ma sulla soglia si fermò. Dove andava? E a fare che cosa? Tutta quella fretta di uscire la colpì come una manifestazione di isterismo estremamente sciocca. Non poteva aiutare Nils. Allora si lasciò cadere su una sedia dell’ingresso e lottò per non scoppiare in lacrime. La radio, intanto, continuava a trasmettere.

e un dispaccio arrivato in questo momento informa che la nave sperimentale, chiamata anche hovercraft, non è più nei cantieri di Elsinore. Si può forse trovare un nesso tra questa notizia e gli avvenimenti precedenti verificatisi a Copenaghen…

Martha uscì sbattendosi la porta alle spalle, e aprì il garage. Non poteva fare niente, questo lo sapeva, ma non era necessario che rimanesse in casa. E mentre si dirigeva a sud, sulla Strandvejen semideserta a quell’ora, sentiva di avere preso una decisione giusta.

Però non si sentì più tanto sicura quando arrivò a Copenaghen, un labirinto di strade bloccate, piene di soldati col fucile in mano. Erano tutti molto cortesi, ma non la lasciavano passare. Tuttavia lei non si arrese. Curiosò qua e là, nel traffico che andava facendosi sempre più intenso, e si accorse che era stato creato un grande anello intorno alla zona del Porto Franco. Allora fece un ampio giro, percorrendo vicoli secondari, e puntò di nuovo verso la banchina al di là del Kastellet, il castello a pianta pentagonale e cinto da un fossato, sul fianco meridionale del porto. Poco prima di giungere alla banchina, trovò un posto per l’auto. La gente le passava accanto a piedi, e c’erano altre persone più avanti, vicino all’acqua.

Il vento freddo che tirava dal Sound la sferzava e lei non aveva modo di difendersi. La folla aumentava e tutti scrutavano l’Øresund per scoprire qualche segno di attività insolita. Alcuni degli spettatori si erano portati la radio, ma nessun bollettino accennava ai misteriosi avvenimenti del Frihavn.

Passò un’ora, poi un’altra, e Martha cominciò a domandarsi che cosa stesse lì a fare. Era completamente gelata e le radioline trapassavano i timpani. All’improvviso, un coro di «Ssss!» si levò da un gruppo di persone in ascolto. Martha cercò di avvicinarsi, ma inutilmente. Riuscì però a captare le frasi centrali del notiziario danese.

La Galatea… un varo ufficiale… cerimonia… castello Amalienborg nel pomeriggio… C’era dell’altro, ma bastava così. Stanca e intirizzita, si voltò per ritornare all’auto. Era certa che l’avrebbero invitata alla cerimonia. Probabilmente stavano cercando di telefonarle ora. Meglio fare un pisolino, poi chiamare Ulla Rasmussen per decidere che abito mettersi.

Un uomo le si parò davanti, sbarrandole la strada. Era Bob Baxter.

— Siete mattiniera, Martha — disse. — Questo dev’essere un gran giorno per voi. — Sorrideva, ma né le parole né il sorriso erano sinceri.

Lei si accorse che non poteva trattarsi di una coincidenza. — Mi avete seguita! — disse. — Avete sorvegliato la mia casa!

— La strada non è un posto adatto per discutere… e voi avete l’aria infreddolita. Perché non entriamo in quel bar? Prendiamo un caffè, qualcosa da mangiare.

— Me ne torno a casa — disse Martha, facendo l’atto di allontanarsi.

Lui la fermò con un braccio.

— Perché non siete venuta a quell’appuntamento? Quando si tratta di passaporti, i guai possono farsi seri. Volete che parliamo ora, alla buona, bevendoci una tazza di caffè? C’è forse qualcosa di male?

— No. — All’improvviso Martha si sentì molto stanca. Era inutile irritare quel tipo. Una tazza di caffè bollente le avrebbe fatto bene. Così gli permise di offrirle il braccio e di tenerle aperta la porta del bar.

Sedettero accanto alla finestra, davanti al panorama del Sound che si stendeva oltre i tetti delle auto parcheggiate. Il caldo rianimò Martha, che però non si tolse il cappotto. Baxter invece ripiegò il suo sullo schienale della sedia e ordinò due caffè a una cameriera che capiva l’inglese. Poi non parlò più fino a che la cameriera non portò i caffè e si allontanò.

— Avete pensato a quello che vi ho detto? — chiese Baxter, senza preamboli.

Martha guardò dentro la sua tazzina. — A dire il vero, no — rispose. — Non posso fare proprio niente per aiutarvi.

— Tocca a me giudicarlo. Ma voi sareste disposta a collaborare, vero. Martha?

— Sarei lieta, certo, ma…

— Ora diventate più ragionevole!

Lei si sentì intrappolata dalle sue stesse parole: un’ammissione generica veniva trasformata in una promessa.

— Non c’è «ma» che tenga — continuò Baxter — e non c’è niente di troppo difficile o strano da fare. Recentemente siete diventata amica della moglie del professor Rasmussen, Ulla. Coltivate questa amicizia.

— Ma insomma, voi mi spiate?

Baxter eluse la domanda, come se non fosse degna di risposta. — E conoscete anche Arnie Klein. È stato a casa vostra parecchie volte. Dovete approfondire la sua conoscenza, ora. È un uomo chiave, in tutta questa faccenda.

— Cosa volete, che vada a letto con lui? — sbottò Martha, in un’improvvisa esplosione di collera contro se stessa, quell’uomo e le cose che le stavano accadendo. Baxter non si turbò, ma il suo viso prese un’aria severa, piena di disapprovazione.

— C’è gente che ha fatto assai di più, per il proprio paese, che ha addirittura sacrificato la vita. Io ho dedicato la mia a questo lavoro, e ho visto molte persone morire. Così, vi prego, tenete per voi le vostre banali battute di spirito. Ve la sentite di scherzare sui ragazzi torturati e uccisi mentre combattevano contro i giapponesi, i coreani, i vietnamiti? Sono morti per rendere il mondo sicuro, perché voi poteste essere un’americana libera, vivere dove vi pare e fare ciò che più vi piace. Libera. Voi credete nell’America, vero?

Le aveva lanciato in faccia quella domanda con la solennità di una sfida.

— Certo — disse lei infine — ma…

— La fedeltà non ammette «ma». Come l’onore, è tutta d’un pezzo. Sapete che la vostra patria ha bisogno di voi e operate una libera scelta. Non è necessario ritirarvi il passaporto o servirsi d’altri mezzi di coercizione…

Ah, no? pensò lei, con cattiveria. E allora, perché li tira in ballo?

— … poiché voi siete una donna intelligente. Voi non farete niente di disonorevole, ve lo posso garantire. Contribuirete a riparare un torto.

La sua voce fu coperta dal rombo di uno stormo di aerei che sfrecciarono bassi sopra la città, e Baxter alzò la testa di scatto, per guardarli. Li indicò col dito, ed ebbe un sorriso contratto.

— Nostri — disse. — Lo sapete quanto costa un reattore? Li abbiamo dati noi alla Danimarca. E cannoni, carri armati, navi e tutto il resto. Lo sapete che il nostro paese ha pagato ben il cinquanta per cento delle spese di riarmo della Danimarca, dopo la guerra? Proprio così, anche se ora i danesi l’hanno dimenticato. Non che ci aspettassimo gratitudine, ma un briciolo di lealtà non avrebbe fatto male. Temo, invece, che per noi ci sia in serbo solo una buona dose di egoismo. Che cosa può fare la piccola Danimarca nel mondo moderno? — Strascicò le parole con notevole disprezzo. — Un paese ingordo, che non tiene conto delle proprie responsabilità e dimentica che niente può rimanere segreto a lungo, in questi tempi. Ricordate le spie rosse e la bomba atomica? I comunisti sono al lavoro anche qui, adesso. Si impadroniranno della propulsione Daleth. E poi… sarà la fine del mondo. Moriremo o saremo ridotti in catene…

— Non accadrà necessariamente tutto questo!

— No, perché voi collaborerete. L’America è già stata altre volte l’unico bastione difensivo del mondo libero, e ora le spetta lo stesso ruolo. Noi possiamo garantire la pace.