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Come in Vietnam, nel Laos, in Guatemala pensò lei, ma non ebbe il coraggio di dirlo forte.

I reattori passarono di nuovo, compiendo poi un’ampia virata lontano, sul Sound. Baxter sorseggiò il suo caffè e lanciò un’occhiata al suo orologio.

— Suppongo che ora vorrete tornare a casa e prepararvi. Sarete certo invitata alla grande cerimonia del pomeriggio in onore della Galatea. Vostro marito deve avere a che fare con questo progetto. Che compito ha?

Quella era una domanda a cui poteva rispondere, e lui doveva averlo capito dall’espressione della sua faccia. Il silenzio si prolungò.

— Andiamo, Martha — disse — non sarete mica dalla parte di questa gente!

Aveva parlato in tono divertito, più che sprezzante, come se quel pensiero fosse addirittura assurdo: tenere dalla parte del demonio invece che da quella di Dio!

— È il comandante della nave — disse lei, quasi senza pensare, scegliendo la soluzione migliore. Solo in seguito si disse che presto l’avrebbero saputo tutti, ma per il momento era ancora un segreto. E lei ormai aveva assunto un atteggiamento ben definito.

Baxter non ne approfittò; si limitò ad annuire col capo, come se ciò che gli aveva confidato fosse giusto e naturale. Poi guardò fuori della finestra e Martha lo vide trasalire. Era il primo segno di emozione genuina che avesse mai mostrato. Si voltò per seguire il suo sguardo e all’improvviso si sentì gelare.

— Quella è la Galatea — disse Baxter, indicando la forma tozza apparsa sul Sound. Lei annuì. — Bene, non è più necessario che mentiate, ora. Anche noi sappiamo qualcosa. Abbiamo foto di quella nave singolare scattate da un aereo ad alta quota. Ieri sera era a Elsinore. È venuta qui per qualche motivo, probabilmente per la propulsione Daleth, e ora va ad ormeggiarsi vicino al castello. La vedrete più da vicino tra un po’. Probabilmente salirete a bordo. — Girò la testa e guardò Martha diritto negli occhi, come per dire: Sapete come dovete comportarvi, se andrà così! Fu lei a distogliere lo sguardo. Ormai si era compromessa e lo capiva; aveva il suo tallone d’Achille.

Non sapeva con certezza come fosse accaduto.

I reattori passarono di nuovo a bassa quota. Si vedevano anche le motosiluranti che scortavano la Galatea, mentre questa avanzava, pesante, sulle onde basse. Goffamente.

— Si ferma — disse Baxter. — Chissà perché! Qualche guasto… — Poi sgranò gli occhi e si alzò a metà sulla sedia. — No! Impossibile!

E invece sì. Le motosiluranti si allontanarono, i reattori rombarono lontano.

E, leggera come un palloncino, la Galatea si sollevò dall’acqua. Per un attimo rimase sospesa così, staccata dal mare, poi si alzò sempre più in alto, sempre più in fretta, accelerando; una macchia confusa che scomparve quasi istantaneamente tra le nubi.

Martha tirò fuori il fazzoletto, incerta se ridere o piangere, e lo appallottolò con le mani convulse.

— Lo vedete! — disse Baxter con voce piena di disprezzo. — Mentono perfino a voi… L’intera faccenda del Re è una menzogna. Quelli fuggono, provano dei trucchi.

Lei si alzò di scatto e se ne andò, decisa a non ascoltare altro.

17

— Insomma, io non ne sono capace — disse Arnie. — Ci sono altre persone in grado di farlo bene quanto me, anzi molto meglio. Il professor Rasmussen, per esempio. Lui sa tutto su questa faccenda.

Ove Rasmussen scosse la testa. — Lo farei, se potessi, Arnie. Ma tu sei l’unico che può dire ciò che va detto. Anzi, sono stato proprio io a suggerire che fossi tu a parlare.

Arnie rimase sorpreso a quella dichiarazione, e i suoi occhi parvero accusare Ove di tradimento. Ma non disse nulla. Si rivolse, invece, all’efficiente funzionario del ministero degli interni venuto sulla Luna per sistemare tutti i particolari.

— Non ho mai parlato in televisione — dichiarò. — E neanche sono il tipo da mentire in pubblico.

— Nessuno oserebbe mai chiedervi di mentire, professore — rispose il giovanotto, aprendo la sua valigia ed estraendone una cartelletta. — Vi preghiamo soltanto di dire la verità. Qualcun altro discuterà poi la situazione verificatasi quassù, e riferirà i particolari, senza mentire affatto. Al massimo, taceremo qualcosa: sarà un peccato di omissione. I lavori, qui a Manebasen, non sono completamente finiti, ma non mi sembra un delitto lasciar credere il contrario. Questa nave fa parte della base, ora; esistono depositi esterni per le attrezzature e si lavora ventiquattro ore su ventiquattro.

— Ha ragione — disse tranquillamente Ove. — La situazione in Danimarca continua a peggiorare. L’altra notte hanno assaltato l’Istituto Atomico. Un gruppo di uomini travestiti da poliziotti sono scesi da un’auto e sono penetrati nell’edificio: c’è stato un conflitto a fuoco con i soldati, quando sono stati scoperti. Quattordici morti.

— Come in Israele… incursioni terroristiche — disse Arnie, tra sé. Nei suoi occhi si rifletteva una pena che durava da lungo tempo.

— Non è proprio la stessa cosa — osservò Ove, in fretta. — E non devi sentirti in colpa per quanto è successo. Però puoi contribuire a impedire altri disordini. Capito?

Arnie annuì, in silenzio, guardando fuori della grande finestra. La butterata pianura lunare si stendeva tutt’attorno alla nave, ma la vista della maggior parte del cielo era nascosta dall’orlo ripido di un cratere. Lì accanto, un grande trattore diesel stava scavando un’immensa buca nel suolo. E la nuvola blu che usciva dallo scappamento svaniva nel vuoto quasi nel medesimo istante in cui appariva. Sei grosse bombole di ossigeno erano fissate con cinghie dietro al guidatore.

— Va bene, lo farò — disse lo scienziato. E, presa la decisione, si affrettò a scacciare dalla mente quel pensiero spiacevole. — Si sono verificate altre perdite dagli scafandri? — domandò, indicando il pilota del trattore che ne indossava uno giallo e nero, con un casco tondo in testa. Intanto il funzionario del ministero degli interni filava via, soddisfatto.

— Qualcuna, ma piccolissima. Stiamo attenti e li ripariamo subito. Li teniamo pressurizzati a valori piuttosto bassi, così non c’è un vero pericolo. Comunque, dobbiamo considerarci fortunati di essere riusciti ad avere queste tute. Non so proprio che cosa avremmo fatto, se non avessimo potuto acquistare dagli inglesi quelle in sovrappiù, l’avanzo del loro programma spaziale non realizzato. Quando le cose saranno sistemate, gli americani e i sovietici faranno a gara per fornirci scafandri per… come si dice?

— Per il gran finale.

— Giusto. Presto la base sarà terminata e completamente ricoperta da una cupola, e trasformeremo tutto in modo che possa funzionare con l’energia elettrica, così non dovremo più trasportare i cilindri d’ossigeno dalla Terra.

Si interruppe mentre la troupe televisiva entrava nella stanza, spingendo i carrelli con le attrezzature. Lampade e telecamere vennero montate rapidamente e i cavi del microfono serpeggiavano sul pavimento. Il regista, un tipo con la barba a punta e gli occhiali scuri e agitatissimo, gridava istruzioni a tutti.

— Vi spiace spostarvi? — disse rivolto a Ove e Arnie, facendo segno ai suoi uomini di avvicinarsi. I mobili furono tirati in disparte e al loro posto venne messo un lungo tavolo.

Il regista osservava la scena incorniciandola con le mani.

— Inquadrate quella finestra, là di lato. Gli oratori, davanti… I microfoni sul tavolo. Portate una caraffa d’acqua e dei bicchieri! E adesso trovate qualcosa per quel muro vuoto… — Girò sui tacchi e indicò. — Ecco, quella foto della Luna. Portatela lì.

— È fissata alla parete — protestò qualcuno.