— Scusate! Entrate, prego — disse. Aveva i capelli in disordine e probabilmente delle sbavature di rossetto sul mento, ma se ne infischiava allegramente. — Arnie, che piacere vedervi! Entrate, per favore! — Si ritrovarono nel soggiorno, loro tre soltanto, mentre il rumore di passi pesanti risuonava per tutto il resto della casa.
— Mi spiace per la guardia d’onore — disse Nils. — Ma era l’unico modo di riportare Arnie sulla Terra per una vacanza. Avevamo bisogno tutti di un po’ di riposo, e lui più degli altri. Il mastino Skou si è lasciato commuovere solo a patto che Arnie venisse a stare da noi, e lui potesse prendere tutte le misure di sicurezza che riteneva opportune.
— Grazie per l’ospitalità — disse lo scienziato, abbandonandosi stancamente contro lo schienale di una poltroncina imbottita. Aveva l’aria tesa e aveva perso molti chili. — Mi spiace di imporvi…
— Non fate lo sciocco! Se dite un’altra parola vi caccio fuori e vi mando all’albergo della missione, dove, lo sapete, non si vendono alcolici. Ecco qui i bicchieri. Brindiamo. Che cosa preferite? — Si alzò e andò al bar.
— Ho le braccia pesanti come il piombo — disse Nils alzandole e abbassandole, scocciato. — Mi resta appena forza sufficiente per portare un bicchiere alla bocca. La gravità lunare, un sesto di quella terrestre, rovina i muscoli.
— Povero tesoro! Devo darti il poppatoio?
— Lo sai che cosa devi fare, per ridarmi energie!
— Mi sembri troppo stanco. Meglio bere qualcosa, prima. Ho preparato dei martini. Vanno bene?
— Benissimo. E ricordami che ho una bottiglia di gin di Bombay in valigia per te. Si possono acquistare senza sovrapprezzo, sulla Luna, perché è stato deciso di considerarla porto franco finché a qualcuno non verrà un’idea migliore. I doganieri, molto generosi, ci permettono di portarne un litro sulla Terra. Una gita di andata e ritorno di ottocentomila chiometri, per risparmiare venticinque kroner di dogana! Il mondo è impazzito. — Mandò giù una sorsata del liquido gelato e sospirò soddisfatto.
Arnie bevve qualche sorso. — Spero che mi perdonerete per la presenza di tutte queste guardie e per la confusione, ma mi trattano come un tesoro nazionale…
— E lo siete davvero! — esclamò Nils. — Ora che tutta l’attrezzatura Daleth è sulla Luna, valete un miliardo di kroner per qualsiasi paese che abbia tanto denaro da comprarvi. Vorrei non essere così patriota: vi venderei al miglior offerente, poi mi ritirerei a Bali per il resto della mia vita!
Arnie sorrise, più rilassato, e, rivolto a Martha, disse: — Hanno ordito una congiura. I dottori, Skou, vostro marito, tutti quanti. Hanno pensato che trasformando la vostra casa in un fortino armato io sarei potuto venire. Comunque, il tempo non poteva essere migliore.
— Tempo da vela — disse Nils, scolando il bicchiere. — Dov’è la barca?
— In acqua, come volevi tu, ormeggiata nel lato sud del porto.
— Che giornata, per una gita! Perché non ce ne andiamo tutti insieme laggiù… Ah, no, accidenti! Arnie deve restarsene in casa!
— Andate voi due. Io starò benissimo qui — insisté lo scienziato. — Prenderò il sole in giardino.
— Niente affatto! — replicò Martha. — Andrà Nils al porto e se ne tornerà indietro tutto accaldato e incatramato. Lui non esce mai con la barca, si limita a calafatare le fessure e a verniciare. Lasciamo che vada a distendersi i nervi, mentre noi ce ne stiamo qui a crogiolarci al sole.
— Be’… se non vi spiace… — Nils era già alla porta.
— Va’ pure — rise Martha. — Ma torna in tempo per la cena.
— Vado a cercare Skou per dirgli che cosa ho intenzione di fare. Non che quelli si preoccupino molto di me… Io della propulsione Daleth so soltanto premere i pulsanti.
Martha gli portò i pantaloni da lavoro, la camicia macchiata di vernice e i calzoncini da bagno. Appena pronto, Nils uscì sbattendo la porta. Arnie era andato in camera sua a cambiarsi e, alla vista di quel sole delizioso, anche Martha si mise in costume da bagno. Tutti i danesi si trasformano in adoratori del sole, in giornate simili.
Poi Arnie si allungò su una sdraio, nel patio, e Martha ne spostò un’altra accanto alla sua.
— Magnifico — disse lo scienziato. — Non mi rendevo conto di quanto ci mancassero i colori e l’aria aperta. — L’ombra di un gabbiano scivolò sull’erba e si arrampicò sullo steccato di legno. Tutto era tranquillo. Qualcuno rideva, lontano, e si udiva distintamente il toc toc di una palla da tennis.
— Come va il lavoro? Per lo meno quel tanto di cui potete parlarmi?
— L’unico segreto è la propulsione. Per il resto, è come dirigere una compagnia di navi a vapore e aprire le porte del West selvaggio. Avete letto della nostra visita a Marte?
— Sì. E vi ho invidiato. Quando comincerete a vendere biglietti per passeggeri?
— Prestissimo. E voi avrete il primo. Si stanno già facendo molti progetti in quel senso. Comunque, quelle vene superficiali di uranio su Marte hanno fatto alzare tremendamente le azioni della DFRS sui mercati mondiali. Tutti versano denaro a palate nel super transatlantico che gli svedesi stanno costruendo, principalmente per trasporto merci, ma anche con molte cabine passeggeri per i turisti che verranno poi. Lo rimorchieremo fino sulla Luna, e là inseriremo la propulsione. La base è diventata quasi una città, ormai, con officine e catene di montaggio. Quasi tutti i pezzi delle unità Daleth sono costruiti là, tranne gli elementi elettronici standard, che vengono dalla Terra. Procede tutto a meraviglia e nessuno trova da lamentarsi. — Si guardò intorno per toccare ferro, ma le sedie in plastica del giardino non ne avevano.
— Devo portarvi una pentola? — domandò Martha. Ed entrambi scoppiarono a ridere. — Forse preferite una bibita ghiacciata? Il cortile, così chiuso, ripara dalla brezza. Sentirete molto caldo, immagino.
— Grazie. Ma dovete farmi compagnia.
— Cercate di impedirmelo, se ce la fate. Gin e acqua tonica, dato che abbiamo cominciato col gin.
Martha si alzò e tornò con i bicchieri sopra un vassoio. Camminava senza far rumore, a piedi nudi, e Arnie trasalì quando la vide.
— Non volevo spaventarvi — disse lei, porgendogli un bicchiere.
— Voi non ne avete colpa: sono io lo sciocco. Ho avuto un periodo di grande lavoro e di tensione. E mi fa veramente bene starmene qui. Fa quasi caldo come in Israele.
— Ne sentite la mancanza, vero? — disse Martha. Poi soggiunse, in fretta: — Scusate, non sono fatti miei.
Il sorriso era sparito, la faccia di Arnie era inespressiva, ora. — Sì, sento la mancanza del mio paese e dei miei amici di là. Ma credo che mi comporterei ancora così, se mi si ripresentasse l’occasione.
— Non voglio ficcare il naso…
— No, Martha, è perfettamente vero. Ce l’ho quasi sempre in mente. Traditore o eroe? Preferirei morire che danneggiare Israele. Eppure ho ricevuto una lettera, in ebraico, senza firma. Che cos’avrebbe pensato Esther Bar-Giora? diceva.
— Vostra moglie?
— Sì. Vi assomiglia molto. Gli stessi capelli… — Lanciò un’occhiata alla figuretta di Martha, più carne che stoffa nel succinto costume da bagno, poi distolse lo sguardo e tossì. — La stessa corporatura. Ma lei era scura, sempre abbronzata dal sole. Una vera israeliana, nata e cresciuta in Israele. Era stata mia allieva; soleva dire che aveva sposato il professore. — Gli occhi di Arnie avevano ora un’espressione triste, lontana. — È stata uccisa durante un’incursione di terroristi. — Sorseggiò il suo gin. Nel silenzio che seguì, si udirono le allegre grida lontane dei bambini.
— Ma non lasciatemi cadere nella tristezza, Martha. È un pomeriggio troppo bello. Però vor rei sapere chi ha mandato quella lettera… Vorrei dire, a chiunque l’ha scritta, che Esther si sarebbe forse inquietata con me, ma certo poi avrebbe capito. E infine mi avrebbe dato ragione. Verrà il giorno in cui il bene del genere umano dovrà essere anteposto a quello della patria. Voi sapete che cosa intendo dire: siete americana per nascita e danese di adozione; una vera cittadina del mondo.