19
La Jaguar sfrecciava verso nord, lungo la costa, senza però superare il limite di velocità. Nils Hansen guidava disinvolto con una mano sola, mentre cori l’altra cercava un programma di musica alla radio.
— Siamo partiti un po’ tardi — disse. — Devi fermarti a Helsingør?
— Devo passare dall’ufficio postale. Ci metto un minuto — rispose Martha.
— Che c’è di tanto importante? — Aveva trovato una stazione svedese che trasmetteva una piacevole polka.
— Devo spedire una pellicola per farla sviluppare.
— E perché non vai dal fotografo, in Rungsted?
— Sono troppo lenti. Questo è un posto speciale, a Copenaghen. Se hai paura che ti faccia far tardi, lasciami giù vicino al traghetto e va per conto tuo.
Lui le lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, ma Martha fissava dritto davanti a sé, senza espressione.
— Ehi! Ma questa è una vacanza… certo che ti aspetto! Solo, non vorrei che perdessimo il varo… o l’ascensione, o che altro diavolo vuoi chiamarlo. Ti piacerà. Quei rimorchiatori si abbasseranno, agganceranno l’astronave e la solleveranno dallo scafo di costruzione. La propulsione verrà installata sulla Luna.
Dovettero aspettare davanti allo scivolo del traghetto, perché una locomotiva a vapore attraversava la strada sbuffando e tirandosi dietro una fila di vagoni merci chiusi.
— Guarda un po’ quel somaro da cantiere! — disse Nils. — Perde vapore e olio da tutte le giunture… eppure è ancora capace di far sbarcare i convogli dalla nave traghetto. Lo sai quanti anni ha? — Martha evidentemente non lo sapeva, e neanche sembrava che la cosa la interessasse molto. — Te lo dico io. Sta scritto sulla targhetta, di fianco. Quella veterana è stata costruita nel milleottocentonovantadue!! E lavora ancora. Noi danesi non eliminiamo niente che sia in grado di lavorare. Siamo gente molto pratica.
— Al contrario di noi americani, che costruiamo auto e cose da rompere subito e gettar via, vero?
Nils non rispose, ma passò davanti alla stazione e svoltò in Jernbanevej, proseguendo fino all’ufficio postale, sul retro del terminal. Parcheggiò, e Martha scese portando con sé il pacchetto. Una pellicola. Nils si domandò da quanto tempo l’avesse nella macchina fotografica. Non aveva mai fatto fotografie da quando lui era tornato. Che vacanza… Pensò che Martha era stata insopportabile durante tutto il suo periodo di licenza. Chissà che cosa diavolo aveva… Proprio non riusciva a capirlo. Si accorse di essersi fermato vicino alla bancarella dei panini imbottiti e il suo stomaco cominciò a gorgogliare, interessato, a quella vista. Avrebbero certamente pranzato tardi, ed era meglio provvedere. Scese e ordinò due tartine, senza cipolla cruda, ricordandosi che doveva assistere al varo in compagnia di uomini politici e pezzi grossi. Comunque, era un posticino da tener presente, quello. Oltre alle tartine, prese una bottiglietta di birra.
Che diavolo aveva Martha? Non che fosse insensibile, ma c’era qualcosa che la teneva lontana da lui, nel letto, la notte. Forse era la tensione nervosa causata dai suoi voli sulla Luna, dal sabotaggio e da tutto il resto. Erano difficili da capire, le donne. Creature maledettamente strane. Di umore balzano. La vide uscire dall’ufficio postale e si affrettò a finire la birra…
Nils non dubitò mai, neppure un istante… Dopo quel pomeriggio di domenica, non aveva mai più ripensato, neppure una volta, alla biondissima Inger.
20
Era quasi mezzogiorno, cosicché all’equatore, a metà dell’estate, la temperatura aveva raggiunto i trenta gradi sotto lo zero. La collina, che in realtà era il fianco di un grande cratere circolare, si levava bruscamente sulla pianura marziana, e un sole rattrappito guardava giù sul paesaggio gelato, dal cielo nero, dove si potevano scorgere distintamente le stelle più lucenti. Solo all’orizzonte l’atmosfera era tanto densa da tracciare una sottile linea azzurra contro il cielo. L’aria era immobile in un silenzio senza tempo, e così rarefatta, ridotta ad anidride carbonica pura, da non essere quasi più aria del tutto. E molto, molto fredda.
I due uomini che salivano il ripido pendìo avanzavano faticosamente, nonostante la bassa gravità. Le loro tute, pesantemente isolate e scaldate elettricamente, li impacciavano nei movimenti; e gli accumulatori e i serbatoi dell’ossigeno li appesantivano molto. Quando ebbero raggiunto la cresta, si fermarono a riposare. Il loro viso era nascosto dalla maschera e dagli occhiali.
— È… una bella salita — disse Arnie, ansando.
La maschera impediva di scorgere l’espressione di Nils, ma la voce risuonò ansiosa. — Spero che non sia stata troppo faticosa — disse. — Forse non avrei dovuto condurvi!
— Ma no. Sono semplicemente senza fiato. E giù di forma. È molto tempo che non faccio niente del genere. Però ne valeva la pena: è una vista superba!
Poi il paesaggio silenzioso trascinò anche loro in un silenzio pesante. Freddo, buio, inospitale, quel pianeta non era mai morto solo perché non era mai nato. La piccola colonia, là sotto, brillava come una luce amica alla finestra, unico tocco di calore nel gelo eterno di Marte. Arnie si guardò intorno, poi si tirò bruscamente in disparte, chiamando a sé Nils con un gesto.
— Qualcosa che non va? — domandò il pilota.
— No, no affatto. È che facevamo ombra a quel Marshål. Comincia a chiudersi: crede che sia di nuovo sera.
Infatti le braccia solitamente allungate della pianta-animale, lunghe trenta centimetri e simili a quelle della stella marina, erano ripiegate a metà e mostravano la parte inferiore, ruvida e grigiastra. Quando erano completamente chiuse, formavano come una palla isolata dall’ambiente ostile, e tenevano stretta la minuscola quantità di calore ed energia che avevano immagazzinato in attesa di un nuovo ritorno del sole. All’alba, le braccia si aprivano completamente, esponendo le piastre interne, di un nero brillante, che catturavano e trattenevano le radiazioni provenienti dall’astro lontano.
Quella rozza escrescenza era l’unica forma di vita scoperta su Marte fino a quel momento; e, sebbene la denominazione di «cavolo di Marte» fosse ormai ufficialmente riconosciuta, la pianta-animale veniva considerata da tutti con rispetto, se non proprio con reverenza. Era l’unico abitante del pianeta! I due uomini si spostarono per lasciare che il sole la illuminasse.
— Mi ricorda alcune piante del deserto in Israele — disse Arnie.
— Sentite la mancanza di Israele, vero? — domandò Nils.
— Sì, certo. Inutile domandarmelo. — A causa dell’atmosfera rarefatta, la sua voce giungeva come un sussurro lontano.
— Lo credo bene. Conosco molti paesi, e parecchi mi sembrano assai più interessanti del mio, quando ci scendo con l’aereo. Eppure non vorrei vivere in nessuno di essi: sceglierei, potendo, ancora la Danimarca. Non la lascerei. A volte mi domando come abbiate fatto a prendere le valigie e ad abbandonare Israele solo per una questione di principio. Non credo che riuscirei a fare una cosa simile. Non ne avrei il coraggio. — Poi, cambiando discorso, disse: — Guardate, eccola là, proprio come vi avevo detto. Da quassù si vede l’intera zona. Ci sono gli edifici nuovi che stanno appunto sorgendo, il campo di atterraggio, dietro Galatea. Quando sarà necessario, si potranno costruire altri edifici lungo il lato orientale. Qui si formerà una colonia completa… una città, un giorno o l’altro. La strada ferrata si spingerà fino alle montagne, dove ci sono le miniere.
— Un progetto molto ottimista. Comunque non vedo perché non debba riuscire. — Ma Arnie pensava a ciò che aveva detto Nils. A Israele. Era qualcosa che lo tormentava come un mal di denti e che non riusciva a dimenticare, anche se raramente ne parlava con altri. — Che cosa intendevate dire esattamente, affermando che per fare quel che ho fatto io ci vuole del coraggio? Ho compiuto semplicemente il mio dovere. Credete che abbia sbagliato e che avessi degli obblighi verso Israele, prima che verso il genere umano?