— Buona sera, Avri.
— Venite nella mia cabina? Ho dello scotch da farvi assaggiare.
— Non sono un gran bevitore…
— Venite ugualmente. Me l’ha dato il signor Sakana.
Arnie guardò il generale cercando di leggere qualcosa su quei lineamenti impassibili, abbronzati. Avevano parlato in inglese, e non c’era nessuno a bordo che si chiamasse Sakana. Quella era una parola ebrea che significava «pericolo».
— Be’, se proprio insistete…
Gev entrò, seguito da Arnie, poi chiuse a chiave l’uscio.
— Che cosa c’è? — domandò il professore.
— Un attimo. Prima i doveri dell’ospitalità. Accomodatevi, prego. Prendete quella sedia.
Come tutte le cabine, anche quella era lussuosa. L’oblò, con la sua copertura di metallo che si era automaticamente ritirata dopo l’attraversamento delle fasce di Van Alien, si apriva sulle stelle dello spazio. Sul pavimento c’era un tappeto fatto a mano. Le pareti erano coperte da pannelli di teak e decorate con stampe di Sikker Hansen. Il mobilio era di stile scandinavo moderno.
— E c’è la televisione a colori in tutte le cabine — disse Gev, indicando il grande schermo, dove un cannone tuonava silenziosamente in una scena di guerra tolta dal film Da Atlanta al mare. Poi prese una bottiglia dal bar.
— È molto pratica — disse Arnie. — E lo è anche il sistema di divertire con programmi registrati. Mi avete condotto qui per chiacchierare sull’arredamento dell’interno?
— Non proprio. Ecco, assaggiate questo. È vecchio di dodici anni. Mi ci sono abituato quando combattevo con gli inglesi. C’è qualcosa che non va, sulla nave. Lehaym.
— Che volete dire? — Arnie rimase lì, col bicchiere in mano, perplesso.
— Assaggiatelo. È mille volte meglio di quello schifoso slivoviz che servivate voi. Intendo dire quello che ho detto. Qualcosa non va. Ho riconosciuto almeno due membri della delegazione orientale: due duri e noti agenti, due criminali.
— Ne siete certo?
— Naturalmente. Dimenticate che sono incaricato della sicurezza interna? Ho letto tutti i rapporti dell’Interpol.
— E che ci farebbero qui? — domandò Arnie: e mandò giù un sorso troppo abbondante, cominciando a tossire.
— Piano… Gustatelo come il latte di mamma. Non so che cosa siano venuti a fare, ma posso indovinarlo. Inseguono la propulsione Daleth.
— Impossibile!
— Ah, sì? — Gev prese un’aria quasi divertita, e al tempo stesso depressa. — Posso domandarvi quali misure di sicurezza sono state prese?
Arnie non rispose, e l’altro scoppiò a ridere.
— E allora non ditemelo. Non vi critico per i vostri sospetti. Ma io, da solo, non valgo un esercito, e l’unico israeliano a bordo, oltre me, è quello shlub di un biologo. È considerato un genio, ma non certo un guerriero.
— Non eravate così cordiale, l’ultima volta che ci siamo visti.
— E c’era di che, lo sapete bene. Ma i tempi sono cambiati e Israele ha fatto di necessità virtù. Non possediamo la vostra propulsione Daleth, anche se ha un bel nome ebreo, ma i danesi si sono dimostrati assai più accomodanti di quanto ci eravamo aspettati. Riconoscono che gran parte della teoria Daleth è stata elaborata in Israele, e ci danno sempre una priorità assoluta nel settore scientifico e commerciale: avremo anche una nostra base sulla Luna. Per il momento non possiamo lamentarci. Ci interessa sempre la propulsione Dàleth, ma per ora non intendiamo far fuori nessuno, per impossessarcene. Voglio parlare col capitano Hansen.
Arnie, assorto nei suoi pensieri, si morse un labbro, e finì ciò che restava del whisky, senza neppure accorgersene. — Aspettatemi qui — disse, infine. — Gli riferirò ciò che avete visto.
— Fate in fretta, Arnie — raccomandò Gev, pacato. Parlava molto seriamente.
Nils aveva fatto un breve discorso durante il banchetto, poi si era ritirato sul ponte di comando con la scusa che aveva da fare. E ora se ne stava lì seduto, con una gamba sopra il bracciolo della sedia, contemplando le stelle. Quando Arnie gli riferì le parole di Gev, si girò di scatto.
— Impossibile!
— Può darsi. Ma io gli credo.
— Non potrebbe essere un trucco, per venire sul ponte?
— Non so. Penso di no. È un uomo d’onore… e gli credo.
— Spero che voi abbiate ragione… e che lui si sbagli. Non posso comunque ignorare le sue accuse. Lo farò venire qui, ma il commissario di bordo gli starà continuamente dietro le spalle. — E formò un numero sul telefono.
Il generale venne subito. Il sergente lo seguiva a due passi di distanza, pistola automatica in pugno. La teneva all’altezza della vita, dove non avrebbero potuto strappargliela, e sembrava pronto a servirsene.
— Posso vedere l’elenco dei passeggeri? — domandò Gev. Poi lo scorse attentamente.
— Questo e quest’altro — disse, sottolineando due nomi. — Hanno nomi diversi, in archivio, ma sono le stesse persone. Uno è ricercato per sabotaggio, l’altro è accusato di aver partecipato alla preparazione di un assalto a mano armata. Due tipacci.
— Non riesco a crederci — fece Nils. — Sono i rappresentanti ufficiali di questi paesi…
— Che fanno esattamente ciò che Madre Russia pretende da loro. Non siate ingenuo, capitano Hansen. «Satellite», significa appunto questo. Sono stati comprati e pagati appositamente, e se ne stanno lì pronti a danzare, quando qualcuno suona la melodia giusta.
Il telefono squillò, e Nils staccò distrattamente il ricevitore.
Sullo schermo apparve la faccia terrorizzata di un uomo dalla faccia rigata di sangue.
— Aiuto! — urlò l’individuo.
Poi si udì un gran fracasso, e lo schermo si spense.
23
— Che compartimento era? — gridò Nils, allungando la mano verso il disco del telefono. — Avete riconosciuto quell’uomo?
Gev gli afferrò il braccio, impedendogli di formare il numero. Il sergente alzò la pistola e la puntò sul dorso di Gev.
— Aspettate — disse il generale. — Riflettete prima. Sapete che sta accadendo qualcosa; è abbastanza per il momento. Mettete subito in allarme le vostre difese, se ne avete. Poi appurate qual è la zona minacciata. Ho visto porte a tenuta stagna in tutta la nave. Si possono chiudere da qui?
— Sì…
— E chiudetele, allora. Cercate di ostacolare in ogni modo ciò che sta succedendo.
Nils esitò un istante. — È una buona idea, signore — disse il sergente. Nils annuì.
— Chiudete tutte le porte interne — ordinò Nils. L’ufficiale addetto alla strumentazione sollevò un foglio di plastica protettivo e armeggiò con una fila di interruttori.
— Ma ci sono dei comandi, localmente, che permettono di aprirle — disse il sergente.
— Quelli possono essere bloccati, in caso di emergenza — rispose l’ufficiale addetto alla strumentazione.
— Questo è un caso di emergenza — dichiarò Nils. — Procedete.
Gev si avvicinò alla parete, per non impicciare. Il sergente abbassò la pistola.
— Non intendo interferire con la vostra autorità, capitano — disse Gev. — Ma ho una certa esperienza in cose del genere.
— Sono lieto che siate qui — rispose Nils. — Può darsi che dobbiamo valerci di questa esperienza. — Formò il numero della sala macchine, e un tecnico rispose subito alla chiamata.
— Qualcosa che non funziona, signore. Le porte di uscita sono bloccate e non riusciamo ad aprirle.
— Siamo in allarme. Succede qualcosa a bordo, e non sappiamo ancora con esattezza che cosa. State lontani dalle porte, e non lasciate entrare nessuno. Avvisatemi subito, se capita qualcosa.