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— Credo di avere riconosciuto quell’uomo — disse il radiotelegrafista, esitante. — Era un cuoco… O perlomeno qualcuno che ha a che fare con la cucina.

— Bene. — Nils chiamò le cucine, ma nessuno rispose. — Ecco dove sono! Ma che diavolo possono volere laggiù?

— Armi, forse — suggerì Gev. — Coltelli, mannaie, devono essercene molte. O forse qualcos’altro… Posso vedere una pianta della nave?

Nils si rivolse ad Arnie e disse: — Rispondetemi in fretta! Quest’uomo è dalla nostra parte?

Arnie annuì lentamente. — Credo di sì, adesso.

— Va bene. Sergente, tornate al vostro posto. Neergaard, portatemi la mappa della nave.

La stesero sul tavolo e Gev puntò il dito. — Qui. Che cosa vuol dire køkken?

— Cucina.

— Capisco, allora. Guardate. La si può raggiungere dalla sala da pranzo, a differenza di qualsiasi altra parte della nave riservata ai servizi. E poi… ha una parete in comune con la sala macchine. Che, se non sbaglio, dev’essere questa.

Nils annuì.

— Allora non tenteranno di forzare le porte. Apriranno un passaggio nella parete. Avete modo di raggiungere rapidamente la sala macchine, per dare man forte ai tecnici che sono là dentro, nel caso…

Il telefono squillò e l’ufficiale tecnico comparve sullo schermo.

— Stanno forando una paratìa con un cannello ossidrico, signore. Che facciamo?

— Che cosa ha detto? — domandò Gev, sentendo il tono preoccupato dell’uomo. Non capiva il danese. Arnie glielo spiegò rapidamente, e il generale toccò il braccio di Nils. — Ditegli di trascinare un banco o un tavolo contro la parete, in quel punto, e di ammucchiarvi contro tutto quello che trovano di più pesante. Che cerchino di ostacolarli al massimo.

Nils diede ordini, poi rimase lì, teso. — Non possiamo impedire loro di entrare!

— Non si potrebbero inviare rinforzi?

Nils sorrise mestamente. — Abbiamo una sola pistola a bordo: quella del sergente.

— Mandate lui in sala macchine. A meno che non si possa contrattaccare dalla cucina. Colpite forte, è l’unico modo.

— Fate venire il sergente — disse Nils. — Devo chiedergli di offrirsi volontario. È quasi un suicidio.

Quando gli dissero che cosa stava accadendo, l’uomo acconsentì.

— Sono contento di correre questo rischio, capitano. Può darsi che la cosa funzioni, se quelli non sono armati fino ai denti. Ho un altro caricatore pieno di proiettili, ma non lo porterò con me: non potrò certo ricaricare l’arma. Manderò a segno questi. Entrerò dalla porta del magazzino di poppa. Se si aprirà, riuscirò a sorprenderli.

Poi, levatosi rispettosamente il berretto, si rivolse al generale Gev e si batté la fila di decorazioni sul petto. Non parlava più in danese, ora, ma in inglese.

— Ho visto che guardavate queste decorazioni, generale. È vero, sono stato in Palestina, con l’esercito britannico, a combattere i barbari. Ma quando gli inglesi hanno cominciato a impedire l’ingresso alle vostre navi di profughi, ho tagliato la corda. Ho disertato e sono tornato in Danimarca. Non era pane per i miei denti, quello.

— Vi credo, sergente. Grazie per avermelo detto.

Le porte furono aperte l’una dopo l’altra, per permettergli di passare.

— Dovrebbe essere arrivato, ormai — disse Nils dopo un po’. — Chiamate la sala macchine.

Il tecnico era molto agitato. — Capitano, abbiamo sentito degli spari! Al di là della parete. Moltissimi! E il cannello non fa più rumore.

— Bene — disse Gev quando gli riferirono che cosa era successo. — Forse non li avranno fermati, ma almeno ne hanno rallentato l’azione.

— Il sergente non è tornato — disse Nils.

— Non lo sperava neppure — osservò, impassibile, il generale: le emozioni, in battaglia, erano un lusso che non poteva permettersi. — Ora bisogna lanciare un secondo contrattacco. Ci vogliono altri uomini, possibilmente volontari. Armateli con qualsiasi cosa. Abbiamo un attimo di respiro e dobbiamo approfittarne. Li guiderò io, se permettete…

— Il telefono, capitano — disse il radiotelegrafista. — È un membro della delegazione americana.

— Non posso, ora.

— Dice che sa dell’aggressione e che vuole aiutare.

Nils afferrò il ricevitore e l’immagine di un uomo con gli occhiali dalla montatura pesante lo guardò con espressione compunta.

— Ho sentito che i rossi vi hanno assalito, capitano. Vogliamo darvi una mano. Veniamo subito sul ponte di comando.

— E chi siete, voi? Come fate a saperlo?

— Mi chiamo Baxter. Sono un funzionario dei servizi di sicurezza. Mi hanno mandato su questa nave proprio nel caso dovesse accadere qualcosa del genere. Ho con me alcuni uomini armati. Siamo subito da voi.

Il generale scosse la testa in senso di diniego, ma Nils non aveva bisogno del suo consiglio, per prendere una decisione.

— Avete detto uomini armati? Non era permesso portare armi a bordo.

— Volevamo difendere voi, capitano. E ora ne avete bisogno.

— Niente affatto. State dove siete. Manderò qualcuno a ritirarle.

— Siamo già sul piede di partenza. Non è la prima volta che il nostro paese interferisce in una guerra, ricordatelo. E la NATO…

— Al diavolo la NATO e al diavolo voi! Se fate un solo passo verso il ponte, non sarete considerati diversamente dagli altri.

— Siamo abituati a trattare coi traditori, capitano — disse Baxter, severo. — Il vostro governo saprà apprezzare ciò che noi facciamo, anche se voi non capite. — E interruppe il collegamente.

Gev stava già correndo verso l’uscita che dava nella sezione passeggeri. — È chiusa — gridò. — Non c’è modo di rinforzare questa porta?

Gli altri, guidati da Nils, lo raggiunsero subito. Ma restarono allibiti a fissare lo schermo televisivo. Una decina di uomini erano spuntati dalla svolta del corridoio che stava oltre la porta chiusa, e si precipitava contro questa. Baxter veniva in testa, e dietro a lui correvano uno dei delegati di Formosa, alcuni sudamericani e un vietnamita.

Qualcuno alzò la gamba spezzata di una sedia e la scagliò contro la telecamera. Lo schermo si spense.

— Le cose si complicano — disse Gev con calma, guardando la porta. — Ora dovremo combattere su due fronti, e non siamo attrezzati neppure per lottare su uno.

— Capitano — chiamò dal ponte il radiotelegrafista. — La sala macchine dice che hanno ricominciato a tagliare.

All’improvviso il boato di un’esplosione rimbombò con violenza assordante nello stretto corridoio, e la porta si contorse, mentre una gran nube di fumo entrava dalle fessure, ribollendo. Qualcuno cadde, altri rimasero lì, intontiti. Poi la porta tremò, si piegò ancor di più, e un uomo che impugnava una pistola fece l’atto di introdursi nella stretta breccia.

Gev balzò in avanti, afferrò il polso dell’uomo e lo torse, cosicché la canna della pistola si rivolse verso il soffitto. L’arma sparò una volta, ma le orecchie assordate dei presenti quasi non avvertirono il rumore dello sparo. Allora Gev col taglio della mano colpì al collo l’uomo, che cadde senza vita. Poi il generale armeggiò un istante con l’insolito meccanismo della pistola, infilò l’arma nell’apertura, sopra il corpo del morto, e sparò fino a che il caricatore fu vuoto.

Gli aggressori si fermarono un attimo, ma subito la breccia fu allargata, e due altri uomini vi passarono attraverso, scavalcando il cadavere. Nils ne colpì uno in pieno viso, con un pugno, e lo fece ricadere all’indietro.

Ma gli avversari, superiori per numero e in possesso di diverse armi, ebbero la meglio. Comunque, i difensori si batterono come leoni. Il generale cedette solo dopo essere stato colpito da almeno tre proiettili. Nils non rimase ferito, ma gli aggressori gli si aggrapparono addosso immobilizzandogli le braccia, mentre uno gli dava una mazzata in testa. Arnie non sapeva certo combattere, e fece solo qualche timido tentativo di difendersi, con ben poco successo. Poi tutti vennero trascinati sul ponte. Il radiotelegrafista, l’unico rimasto lassù, parlava alla radio.