— Faccio ciò che devo fare — disse, finalmente, con voce rauca per l’emozione. — Non tornerò. Ho lasciato Israele volontariamente, come volontariamente ci ero andato. Non avete nessun potere su di me, nessuno. Gev…
Il generale si alzò, e guardò la testa china del professore. Le parole salirono lentamente alle labbra, e quando furono pronunciate c’era in esse l’eco di tremila anni di persecuzioni, di morte, di lutti, di una grande, infinita tristezza.
— Voi, un ebreo, potete fare questo?
Non c’era alcuna risposta da dare, e Arnie rimase in silenzio. Ma Gev era tanto soldato da capire quando la sconfitta si profilava inevitabile, anche se non riusciva a scorgerne le cause. Voltò le spalle e non disse nulla. Che altro avrebbe potuto fare, se non voltare le spalle e andarsene? Aprì la porta spingendola con la punta delle dita e non la toccò di nuovo per richiuderla o sbatterla: uscì senza esitazioni, eretto, a passo di marcia. Un uomo che aveva perso una battaglia, ma che non avrebbe mai perso una guerra senza morire.
Ove rientrò e gironzolò per la stanza, riordinando i mucchi di riviste, prendendo un libro solo per rimetterlo subito a posto senza averlo neppure aperto, e si comportò così per alcuni minuti, senza parlare. Quando finalmente parlò, si limitò a dire: — Senti, è una giornata splendida. C’è il sole, e la visibilità è ottima per chilometri e chilometri. Le gonne delle ragazze in bicicletta si gonfiano come palloni. Io ne ho abbastanza di questi spuntini indecenti da latteria e non me la sento di affrontare un altro panino imbottito… andiamo al Langelinie Pavillonen e pranziamo là. Guarderemo passare le navi. Che ne dici?
C’era uno sguardo spento negli occhi di Arnie, quando questi alzò la testa. Non era un tipo abituato a sopportare emozioni violente, non aveva difesa e non sapeva come affrontare ciò che ora sentiva. Il dolore dipinto sul suo viso era così vivo, che Ove dovette voltarsi e ricominciare a trafficare con le riviste appena messe in ordine.
— Sì, se vuoi, possiamo pranzare fuori. — La voce di Arnie era vuota di un’emozione che i suoi lineamenti non riuscivano però a nascondere.
I due uomini uscirono, percorsero in auto, senza parlare, Nørre Alle e attraversarono il parco. Era proprio come aveva detto Ove… Le ragazze pedalavano sulle loro alte biciclette nere e accendevano lampi di colore nella massa monotona delle giacche maschili. Passavano accanto all’auto, sulle banchine riservate alle biciclette ai lati dell’ampia strada, e sciamavano poi in file ordinate agli incroci. Le lunghe gambe pedalavano, le gonne si sollevavano liberamente, ed era davvero un bel pomeriggio… Ma Arnie portava in sé il ricordo della sua grande infelicità. Ove pilotò abilmente la piccola Sprite nel flusso di veicoli e percorse Øserbrogade fino alla banchina. Poi approfittò con prontezza di una breccia nel traffico della Langelinie e si fermò sul retro del ristorante Pavillonen. Era presto, e i due amici riuscirono ad ottenere un tavolino presso la grande vetrata che prendeva tutta una parete. Ove chiamò il cameriere e ordinò il pranzo prima ancora di sedersi. Pochi attimi dopo apparvero una bottiglia di akvavit, in un blocco di ghiaccio, e un paio di birre gelate.
— Ecco qui — disse Ove, mentre il cameriere riempiva due grossi calici di snaps. — Scommetto che non ne hai gustata molta, di questa, a Te! Aviv.
— Skal — dissero insieme, come d’uso. E scolarono i bicchieri. Poi Arnie, mentre sorseggiava la birra, guardò la nave traghetto bianca e nera che faceva servizio per la Svezia, e che in quel momento passava di lì, imponente. Gli autobus aspettavano pazientemente, in fila, mentre i turisti salivano sulle rocce per la rituale visita alla statua della Sirenetta, con la macchina fotografica pronta in mano. Dietro ad essi, le bianche vele di piccoli panfili provenienti dalla darsena tagliavano l’azzurro freddo del Sound. Il mare! Non ci si può allontanare dal mare più di sessantaquattro chilometri, in Danimarca; è la nazione marinara, per eccellenza. I bianchi triangoli delle vele sembravano avviliti da un grande transatlantico ancorato a Langeliniekaj, tutto palpitante di bandiere da segnalazione e vessilli, che gli davano un’aria scanzonata. All’improvviso, un pennacchio di fumo uscì dal fumaiolo anteriore. Un momento dopo si udì distintamente il gemito lontano della sirena.
— Una nave — disse Arnie. Ora che ripensava al suo lavoro, sembrava che ogni traccia di ciò che aveva sofferto fosse scomparsa. — Ci occorre una nave. Quando vorremo provare un… — Esitò, e tutti e due si guardarono attorno senza girare la testa, come cospiratori. Quindi Klein aggiunse, a voce bassissima: — Un apparecchio più grande. Il primo è troppo piccolo, serve solo a dimostrare una teoria. Ma un apparecchio di dimensioni maggiori dovrà essere sperimentato su vasta scala, per poter appurare se ci troviamo di fronte a qualcosa di più di una banale dimostrazione da laboratorio, capace solo di far saltare in aria l’attrezzatura.
— Funzionerà. Ne sono certo.
Arnie torse la bocca e allungò la mano per prendere la bottiglia.
— Beviamo ancora qualcosa — disse.
4
— Riguarda la sicurezzza — disse Skou. Aveva anche un nome di battesimo, Langkilde, ma non lo pronunciava mai, forse per qualche buona ragione. Skou insisteva, chiamatemi Skou e basta. Era come se invitasse tutti all’amicizia anticonvenzionale di una sala da biliardo grande come il mondo. Go’davs, Hansen… Go’davs, Jensen… Go’davs, Skou. Ma, nonostante insistesse nel dichiarare che lui era semplicemente Skou per tutto il genere umano, trattava gli altri con grande correttezza.
— Bisogna sempre prendere la faccenda della sicurezza nazionale molto seriamente, professor Rasmussen — dichiarò, osservando tutti i minimi particolari mentre parlava. — Voi possedete qualcosa che va tenuto al sicuro, quindi dovete avere questa sicurezza in qualsiasi momento.
— Ciò che abbiamo qui…
— Insisto perché non mi diciate nulla. Meno persone sanno, meno persone parlano. Permettetemi solo di prendere le precauzioni necessarie e continuate tranquillamente a lavorare.
— Santo cielo, ma io non sono affatto preoccupato! Abbiamo iniziato a lavorare da poco, e nessuno sa ancora niente del progetto.
— Proprio così deve essere! Preferisco entrare in scena all’inizio, o anche prima dell’inizio, per sistemare le cose debitamente. Se quelli non apprendono alcun particolare non apprendono niente.
Skou aveva l’abilità di creare strani bisticci di parole che lo facevano sembrare uno stupido, mentre non lo era affatto. Quando si levava in piedi, le mani affondate nelle tasche della giacca di tweed consunta, la sua figura pendeva con una strana inclinazione che gli dava l’aria dell’eterno ubriaco. Anche la faccia insulsa e i capelli radi, color sabbia, contribuivano a dare quell’impressione. Ma si sapeva che era falsa. Skou era un funzionario di polizia da molti anni, parlava il tedesco alla perfezione, ed era stato collaboratore e compagno di partite a carte piuttosto disprezzato degli invasori tedeschi a Helsingør, durante la guerra. Aveva anche fatto parte del movimento clandestino in quella zona, e l’instabilità del suo portamento aveva qualcosa a che fare con una schioppettata tiratagli dagli ex compagni di gioco e di gozzoviglie e con una susseguente fuga dal secondo piano di un ospedale per evitare che quelli si rifacessero vivi e lo costringessero a cantare. Ora lavorava per qualche ufficio governativo: non era mai molto esplicito su quell’argomento, ma faceva capo ai servizi di sicurezza e, di conseguenza, tutto gli era permesso. Da oltre un mese entrava e usciva dai laboratori, facendo rispettare rigidamente le norme da lui stabilite perché ciò che doveva restare segreto rimanesse tale.