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— Mi sembra roba da cinematografo, signor Skou — disse Arnie. — Se ci limitassimo a mettere l’apparecchio su un autocarro e a ricoprirlo a dovere, nessuno lo noterebbe.

— Skou e basta, prego. Ciò che è irreale, ha origine dalla realtà, e il cinema, dalla vita. Non so se mi spiego… Ma forse possiamo imparare qualcosa da tutti e due. Meglio essere prudenti. È questione di sicurezza.

Inutile discutere con Skou, su quel punto. Così aspettarono, dentro l’edificio del Nils Bohr Institute, mentre il furgone postale rosso e nero si fermava fuori, sulla rampa di carico. Quando, facendo marcia indietro, il veicolo per poco non rovesciò una pila di casse piene di bottiglie di latte, si udirono delle grida. Ma infine, dopo alcuni Ferma, Hendrik! e Lidt endnu! Sà er den der!, l’apertura posteriore si fermò contro il bordo della piattaforma. Due postini, goffi nelle loro giacche rossicce, appesantiti dai traesko con le suole spesse di legno, caricarono alcune bracciate di pacchi. Che non fossero postini comuni appariva evidente dal fatto che ignorarono completamente la presenza dei tre spettatori: nessun postino danese degno di quel nome avrebbe perso l’occasione di fare una chiacchierata. Skou indicò in silenzio le casse che contenevano l’apparecchio e, ugualmente in silenzio, i falsi postini le spinsero nel furgone in attesa. Le ampie portiere furono chiuse con il grosso lucchetto; il motore rombò e il furgone uscì nella strada. Skou e i due professori rimasero a guardarlo fino a che non sparì, inghiottito dal traffico del mattino.

— I furgoni postali non sono proprio invisibili, ma sono quanto più si avvicina all’optimum — disse Skou. — Questo arriverà all’ufficio centrale di K.øbmagergade, insieme con molti altri furgoni della stessa forma e del medesimo colore e ne uscirà pochi minuti dopo, con nuovi numeri, naturalmente, per dirigersi alla banchina. Propongo, signori, di recarci là anche noi per accoglierlo all’arrivo.

Skou fece salire i due scienziati sulla sua auto, una Opel di pessimo aspetto, e si infilò in parecchi vicoli angusti, entrando e uscendo dalla corrente del traffico, finché non fu certo di non essere seguito. Parcheggiò vicino alla darsena dei panfili e andò in cerca di un telefono, mentre gli altri due proseguivano a piedi. Un vento tagliente spazzava le acque dell’Øresund, soffiando direttamente dalla Svezia e dall’Oceano Artico. Il cielo era grigio.

— C’è aria di neve — disse Ove.

— È quella, la nave? — domandò Arnie, guardando verso l’estremità del molo Langelinie, dove stava ormeggiato un solo vascello.

— Sì, la Isbjorn. Sembra molto adatta alle nostre esigenze. Dopo tutto, non sappiamo con sicurezza quale sforzo dovrà sopportare, e, per quanto vecchia, è sempre un rompighiaccio. L’ho vista per buona parte dell’inverno scorso, occupata a tener libero il canale.

Due poliziotti, massicci nei loro ampi cappotti, guardavano in direzione della Svezia e ignorarono il loro passaggio.

— Skou ha sguinzagliato i suoi cani da guardia — commentò Ove.

— Non credo che avranno molto da fare. Con un tempo simile, non ci saranno molti spettatori.

La nave torreggiava sopra di loro, con la murata nera tempestata di file di chiodi ribaditi. La passerella era abbassata, ma non si vedeva nessuno sul ponte. Salirono lentamente, mentre il piano inclinato scricchiolava sotto i loro passi.

— Un pezzo da museo — disse Ove quando ebbero raggiunto il ponte. — Ma è un po’ troppo fuligginosa.

Un nastro sottile di fumo si levò dal fumaiolo sovrastante la caldaia a carbone.

— Vecchia, ma robusta — osservò Arnie, indicando il massiccio rinforzo della prua. — I rompighiaccio della nuova generazione salgono sopra la crosta ghiacciata e la spezzano con il loro peso. Ma questo vecchio esperto usa il metodo forte, e si fa strada fracassandola. È stata una scelta intelligente. Ma dove sono finiti gli altri?

Quasi in risposta alla sua domanda, la porta della cabina del timoniere si spalancò e sulla soglia apparve un ufficiale in giacca e stivali neri, con una gran barba da pirata che gli nascondeva la parte inferiore del viso. Si avvicinò ai due con passo pesante, ed eseguì un saluto impersonale.

— Immagino che voi siate i signori che ho l’ordine di attendere. Io sono il capitano Hougaard, il comandante. — Non c’era il minimo calore nel suo tono e nei suoi modi.

I due gli strinsero la mano, imbarazzati perché Skou aveva proibito di dire il loro nome.

— Grazie per averci permesso di salire a bordo, capitano. Siete stato molto gentile a mettere a disposizione la vostra nave — azzardò Ove, in tono conciliante. Ma l’altro non era certo di umore pacifico.

— Non avevo alternative — replicò. — Mi è stato ordinato così dai superiori. I miei uomini se ne stanno sotto, come specificano gli ordini.

— Molto gentile — ripeté Ove, cercando con tutte le forze di tenere lontana l’ironia dalla voce. In quel momento si udì lo stridere dei freni, e il furgone postale si fermò sulla banchina sottostante: un’interruzione provvidenziale. — Volete essere tanto cortese da far portare quassù le casse che sono sul furgone?

Per tutta risposta, il capitano gridò qualcosa con voce tonante dentro un boccaporto, e mezza dozzina di marinai arrivarono di corsa. Gli uomini sembravano assai più interessati di Hougaard a ciò che stava accadendo, e forse erano contenti di poter rompere la monotonia quotidiana.

— Piano, con quelle! — disse Arnie, mentre portavano le scatole su per la passerella. — Non lasciatele cadere e non scuotetele troppo.

— Non potrei trattarle più delicatamente se ci fosse dentro mia madre — dichiarò un gigantesco marinaio biondo, dalle larghe basette che si perdevano in un paio di mustacchi eroici. E, mentre il capitano non guardava, il giovanotto strizzò l’occhio agli sconosciuti.

Klein e Rasmussen avevano studiato accuratamente la pianta della nave e scelto la sala macchine come il posto più adatto alle loro esigenze. L’estremità verso prua era stata separata con una parete schermata, ricavandone una stanzetta per l’elettricista, con tutto l’occorrente e un banco di lavoro. C’erano il pannello degli interruttori e il generatore, e, cosa ugualmente importante, si era in contatto con la superficie esterna dello scafo. Le casse furono portate lì e, sotto lo sguardo vigile dei due fisici, deposte delicatamente a terra. Quando tutti gli uomini se ne furono andati, il capitano fece un passo avanti.

— Mi e stato detto che il vostro lavoro deve svolgersi in assoluta riservatezza. Tuttavia, poiché bisogna accendere una delle caldaie, un meccanico dovrà restare qui fuori…

— Benissimo — lo interruppe Arnie.

— … e quando verrà effettuato il cambio della guardia, sostituirò l’uomo personalmente. Se desiderate mettervi in contatto con me, sarò nella mia cabina.

— Va bene. E grazie per la collaborazione, capitano. — Lo guardarono allontanarsi. — Temo che tutto questo non gli vada troppo a genio — disse Arnie.

— Credo però che non possiamo permetterci di preoccuparcene. Sballiamo il materiale.

La sistemazione dell’attrezzatura occupò la maggior parte della giornata. C’erano quattro unità principali, apparecchi elettronici non identificabili nei loro armadietti di metallo nero, tempestati di quadranti. Alcuni grossi cavi con serrafili multipli si intersecavano, e un cavo ancora più grosso correva alla presa dell’energia. Mentre Arnie si affaccendava attorno agli apparecchi, Ove Rasmussen si infilò un paio di guanti di cotone, da operaio, e osservò lo scafo della nave incrostato di vernice e cosparso di chiodi.