— Venne gettata via come spazzatura, senza dubbio — commentò Kossil. — Dicono che non avesse l’aspetto di un oggetto prezioso, l’Anello di Erreth-Akbe. Sia maledetto, e siano maledette tutte le cose del popolo dei maghi! — Sputò nel fuoco.
— Tu hai visto la metà che è qui? — chiese Arha a Thar.
La donna scarna scosse il capo. — È nel Tesoro, dove nessuno può entrare eccettuata l’Unica Sacerdotessa. Forse è il tesoro più grande che vi sia custodito; non so. Credo che lo sia. Per centinaia d’anni le Terre Interne hanno mandato ladri e maghi per cercare di riprenderlo; e quelli non badavano agli scrigni aperti colmi d’oro, cercando solo quella cosa. È passato molto tempo da quando vissero Erreth-Akbe e Intahin, eppure la storia è ancora conosciuta e viene raccontata, qui e in occidente. Molte cose invecchiano e periscono, col trascorrere dei secoli. Sono pochissime le cose preziose che restano tali, e le storie che vengono ancora narrate.
Arha rimuginò per qualche attimo e disse: — Dovevano essere uomini molto coraggiosi o molto stupidi, per entrare nelle tombe. Non conoscevano i poteri dei Senza Nome?
— No — rispose Kossil, con quella sua voce fredda. — Loro non hanno dèi. Operano magie, e credono di essere dèi loro stessi. Ma non lo sono. E quando muoiono, non rinascono. Diventano polvere e ossa, e i loro spettri gemono nel vento per qualche tempo finché poi il vento li disperde. Non hanno un’anima immortale.
— Ma cos’è la magia che loro operano? — chiese Arha, affascinata. Non ricordava di aver detto, una volta, che avrebbe rifiutato di guardare le navi venute dalle Terre Interne. — Come fanno? Cosa fanno?
— Trucchi, inganni, giochi di prestigio — disse Kossil.
— Qualcosa di più — disse Thar, — se le storie che si raccontano sono vere almeno in parte. I maghi dell’occidente possono suscitare e acquietare i venti, e farli spirare come vogliono. Su questo, tutti sono d’accordo e dicono la stessa storia. È per questo che sono grandi marinai; possono mettere il vento della magia nelle loro vele, e andare dove vogliono, e placare le tempeste del mare. E si dice che possano creare la luce a volontà, e la tenebra, e cambiare le pietre in diamanti e il piombo in oro; che possano costruire un grande palazzo o una grande città in un istante, almeno all’apparenza; che possano mutarsi in orsi, o pesci, o draghi, secondo il loro desiderio.
— Io non credo a tutto questo — osservò Kossil. — Che siano pericolosi, astuti ed esperti nei trucchi, e viscidi come anguille, sì. Ma dicono che se togli a un incantatore il suo bastone di legno, lui non ha più potere. Probabilmente, sul bastone sono incisi simboli malefici.
Thar scosse di nuovo la testa. — Portano il bastone, è vero: ma è solo lo strumento del potere che hanno dentro.
— Ma come ottengono il potere? — chiese Arha. — Da dove proviene?
— Menzogne — rispose Kossil.
— Parole — aggiunse Thar. — Così mi è stato detto da un tale che una volta aveva osservato un grande incantatore delle Terre Interne: un mago, come vengono chiamati. L’avevano preso prigioniero, in una scorreria a occidente. Lui mostrò un bastone di legno secco e pronunciò una parola. E tac, il bastone fiorì. E disse un’altra parola: e tac, il bastone si caricò di mele rosse. E poi disse ancora un’altra parola, e bastone e fiori e mele sparirono e con loro sparì anche l’incantatore. Con una sola parola era svanito come l’arcobaleno, in un batter d’occhio, senza lasciar tracce; e non lo ritrovarono mai più su quell’isola. Era soltanto un trucco?
— È facile ingannare gli stolti — rispose Kossil.
Non dissero altro, per evitare una discussione; ma ad Arha dispiacque che abbandonassero l’argomento. — Come sono quelli del popolo degli incantatori? — chiese. — Sono davvero tutti neri, con gli occhi bianchi?
— Sono neri e malvagi. Io non ne ho mai visto uno — rispose in tono soddisfatto Kossil, spostando la sua pesante mole sullo sgabello e tendendo le mani verso il fuoco.
— Che gli dèi gemelli li tengano lontani — mormorò Thar.
— Non verranno mai più, qui — disse Kossil. E il fuoco crepitò, e la pioggia scrosciò sul tetto, e oltre la soglia buia Manan gridò con voce stridula: — Aha! Una metà per me, una metà!
LUCE SOTTO LA COLLINA
Mentre l’anno si avviava di nuovo verso l’inverno, Thar morì. Durante l’estate l’aveva presa la malattia di consunzione; era magra, ma divenne scheletrica; era taciturna, e adesso non parlava più. Parlava soltanto ad Arha, qualche volta, quando erano sole; poi anche questo finì, e lei se ne andò, silenziosamente, nella tenebra. Quando non ci fu più, Arha sentì molto la sua mancanza. Thar era stata severa, ma non era mai stata crudele. A lei aveva insegnato l’orgoglio, non la paura.
Adesso c’era soltanto Kossil.
In primavera sarebbe giunta da Awabath una nuova somma sacerdotessa per il tempio degli dèi gemelli; fino ad allora, Arha e Kossil erano le sole signore del Luogo. La donna chiamava «padrona» la ragazza, e doveva ubbidire se lei le dava un ordine. Ma Arha aveva imparato a non dare ordini a Kossil. Aveva il diritto di farlo, ma non la forza: sarebbe stata necessaria una forza grandissima, per opporsi alla gelosia che Kossil nutriva verso un grado più elevato del suo, al suo odio per tutto ciò che non poteva dominare.
Poiché Arha aveva imparato — dalla dolce Penthe — l’esistenza dell’ateismo, e l’aveva accettato come realtà anche se le faceva paura, aveva potuto guardare Kossil con maggiore fermezza, e l’aveva compresa. Kossil, in cuor suo, non nutriva la minima venerazione per i Senza Nome o per gli dèi. Non considerava sacro null’altro che il potere. Adesso l’imperatore delle Terre di Kargad deteneva il potere: quindi ai suoi occhi era davvero un re-dio, e lei l’avrebbe servito devotamente. Ma per lei i templi erano soltanto apparenza, le Pietre erano soltanto sassi, le Tombe di Atuan erano gallerie tenebrose scavate nella terra, terribili ma vuote. Se avesse potuto, avrebbe abbandonato il culto del Trono Vuoto. Se avesse osato, avrebbe liquidato la Prima Sacerdotessa.
Arha affrontò con fermezza anche quest’ultimo fatto. Forse Thar l’aveva aiutata a capirlo, benché direttamente non avesse mai detto nulla. Durante i primi stadi della sua infermità, prima che il silenzio scendesse sopra di lei, aveva chiesto ad Arha di recarsi a visitarla quasi tutti i giorni, e le aveva parlato, le aveva detto molte cose delle azioni del re-dio e del suo predecessore, e delle consuetudini di Awabath: erano cose che lei doveva conoscere, perché era una sacerdotessa importante, ma che spesso non tornavano a onore del re-dio e della sua corte. E aveva parlato della propria vita, e aveva raccontato com’era stata e cos’aveva fatto l’Arha dell’incarnazione precedente; e qualche volta, ma non spesso, aveva accennato ai possibili intoppi e pericoli della vita attuale di Arha. Neppure una volta aveva nominato Kossil. Ma Arha era stata allieva di Thar per undici anni, e le bastava un accenno o un tono per comprendere e per ricordare.
Dopo il lugubre subbuglio dei Riti del Lutto, Arha incominciò a evitare Kossil. Quando i lunghi lavori e rituali della giornata si erano conclusi, se ne andava nella sua dimora solitaria; e ogni volta che ne aveva il tempo, andava nella stanza dietro il trono e apriva la botola e scendeva nella tenebra. Di giorno e di notte, poiché là non c’era differenza, proseguiva un’esplorazione sistematica del suo dominio. La cripta, con la sua immensa sacralità, era vietata a tutti tranne le sacerdotesse e i loro eunuchi più fidati. Chiunque altro vi si fosse avventurato, uomo o donna, sarebbe stato certamente ucciso dall’ira dei senza Nome. Ma tra tutte le regole che Arha aveva imparato, non ce n’era nessuna che proibisse l’accesso al labirinto. Non era necessario. Vi si poteva penetrare solo passando dalla cripta; e del resto, le mosche hanno forse bisogno di regole che dicano loro di non entrare in una ragnatela?