— È facilissimo scalare il muro delle tombe — disse Arha, mentre lo costeggiavano.
— Non abbiamo abbastanza uomini per ricostruirlo.
— Abbiamo pure abbastanza uomini per custodirlo.
— Soltanto schiavi. Non possiamo fidarci, di loro.
— Possiamo fidarci, se hanno paura. Si stabilisca che la punizione sia per loro la stessa comminata all’estraneo cui permettessero di porre piede sul sacro suolo all’interno del muro.
— Qual è la punizione? — Kossil non lo chiese per conoscere la risposta. Era stata lei stessa a insegnarla ad Arha, molto tempo addietro.
— Essere decapitato davanti al trono.
— È la volontà della mia padrona che venga posta una guardia al muro delle tombe?
— Sì — rispose la ragazza. Nelle lunghe maniche nere, le sue dita si contrassero euforicamente. Sapeva che Kossil non avrebbe desiderato assegnare neppure uno schiavo al compito di sorvegliare il muro, e per la verità era un dovere inutile: quando mai veniva lì qualche estraneo? Non era probabile che qualcuno capitasse a meno di un miglio dal Luogo, per caso o volutamente, senza essere avvistato; e di certo non sarebbe riuscito ad avvicinarsi alle tombe. Ma una guardia era un onore dovuto, e Kossil non poteva opporsi. Doveva ubbidire ad Arha.
— Qui — disse la sua fredda voce.
Arha si fermò. Aveva percorso spesso quel sentiero, intorno al muro delle tombe, e lo conosceva come conosceva ogni spanna del Luogo, ogni sasso e ogni roveto e ogni cardo. Il grande muro di roccia si innalzava alla sua sinistra, tre volte più alto di lei; sulla destra la collina digradava in una valle arida e poco profonda, che presto risaliva verso la catena occidentale. Girò lo sguardo sul terreno, tutt’intorno, e non vide nulla che non avesse già visto.
— Sotto le rocce rosse, padrona.
Poche braccia più in basso, sul pendio, uno spuntone di lava rossa formava una scala o un piccolo strapiombo nella collina. Quando Arha scese e si fermò davanti alle rocce, si accorse che sembravano una porta rudimentale, alta poco più di un braccio.
— Cosa devo fare?
Aveva imparato ormai da molto tempo che nei luoghi sacri è inutile cercare di aprire una porta se non si sa come si fa ad aprirla.
— La mia padrona ha tutte le chiavi dei luoghi tenebrosi.
Fin dai riti per la sua maggiore età, Arha portava alla cintura un anello di ferro cui erano appesi un pugnaletto e tredici chiavi, alcune lunghe e pesanti e altre minuscole come ami da pesca. Alzò l’anello e allargò le chiavi. — Quella — disse Kossil, indicandola, e poi posò il tozzo indice su una crepa tra due rosse superfici di pietra corrosa.
La chiave, una lunga asta di ferro con due guardie ornate, si inserì nella crepa. Arha la girò verso sinistra, usando entrambe le mani perché era rigida: tuttavia girò senza difficoltà.
— E ora?
— Insieme…
Spinsero insieme la pietra scabra a sinistra della serratura. Pesantemente, ma senza intoppi e con pochissimo rumore, una sezione irregolare della roccia rossa rientrò, mostrando una stretta fenditura. All’interno c’era la tenebra.
Arha si chinò ed entrò.
Kossil, che era pesante e pesantemente vestita, stentò a insinuarsi attraverso quell’apertura. Appena fu entrata si appoggiò con le spalle alla porta e la chiuse, premendola.
Era assolutamente buio. Non c’era neppure un filo di luce. L’oscurità sembrava opprimere gli occhi aperti, come feltro bagnato.
Stavano chine, quasi piegate in due, perché l’andito dove si trovavano era alto poco più di un braccio e così stretto che le mani brancolanti di Arha toccavano la pietra umida a destra e a sinistra.
— Hai portato una lampada?
Bisbigliava, come succede quando si è al buio.
— Non ne ho portate — rispose Kossil, dietro di lei. Anche la voce di Kossil era bassa; ma aveva un suono strano, come se la donna stesse sorridendo. Kossil non sorrideva mai. Il cuore di Arha diede un tuffo: il sangue le pulsò nella gola. Si disse, rabbiosamente: questo è il mio posto, e non avrò paura.
Non disse nulla, a voce alta. Si avviò. C’era una sola direzione possibile: il passaggio si addentrava nella collina, in discesa.
Kossil la seguì, respirando pesantemente, e le sue vesti frusciavano contro la roccia e la terra.
All’improvviso, la volta si alzò; Arha poté raddrizzarsi, e quando tese le mani non sentì più le pareti. L’aria, che prima era viziata e sapeva di terra, adesso le sfiorava il volto con un’umidità più fresca, e il suo lieve movimento dava la sensazione di una grande ampiezza. Arha mosse qualche passo, cautamente, nella tenebra assoluta. Un ciottolo, scivolando sotto il suo sandalo, colpì un altro ciottolo, e quel suono minutissimo destò gli echi, molti echi, remoti, ancora più remoti. La caverna doveva essere immensa, alta e ampia, e tuttavia non vuota: e qualcosa in quella tenebra (superfici di oggetti invisibili, o pareti divisorie) spezzava l’eco in mille frammenti.
— Qui dovremmo essere sotto le Pietre — mormorò la ragazza; e il suo bisbiglio corse nella tenebra cavernosa e si sfilacciò in fili di suono esili come ragnatele, che aderirono all’udito per molto tempo.
— Sì. Questa è la cripta. Va’ avanti. Non posso rimanere qui. Segui il muro a sinistra. Supera tre aperture.
Il respiro di Kossil era sibilante (e sibilavano anche i minuscoli echi). Aveva paura, aveva veramente paura. Non amava essere là, tra i Senza Nome, nelle loro tombe, nelle loro grotte, nella tenebra. Non era il suo posto, quello.
— Verrò qui con una torcia — disse Arha, orientandosi lungo la parete della grotta al tocco delle dita, sorprendendosi delle forme strane della roccia, incavi e protuberanze e curve finissime e spigoli, qua irregolari come un merletto, là levigati come il bronzo: senza dubbio un bassorilievo. Forse l’intera caverna era opera degli scultori di un lontano passato?
— Qui la luce è proibita. — Il sussurro di Kossil era tagliente. E mentre Kossil pronunciava queste parole, Arha comprese che doveva essere così. Quella era la patria della tenebra, il centro della notte.
Per tre volte le sue dita incontrarono una breccia nella complessa oscurità rocciosa. La terza volta cercò di misurare a tastoni l’altezza e l’ampiezza del varco, e vi entrò. Kossil la seguì.
In quella galleria, che adesso saliva lievemente, passarono davanti a un’apertura sulla sinistra, e poi, a una diramazione, svoltarono a destra: sempre a tentoni, brancolando nella tenebra e nel silenzio sotterranei. In un passaggio come quello, era necessario protendere quasi ininterrottamente le mani per toccare le pareti laterali, per non farsi sfuggire una delle aperture che bisognava contare, o la biforcazione che doveva essere seguita. Il tatto era l’unica guida: non era possibile vedere la via, bisognava seguirla con la mano.
— Questo è il labirinto?
— No. Questo è il meandro minore, situato sotto il trono.
— Dov’è l’ingresso del labirinto?
Ad Arha piaceva quel gioco al buio: e adesso aspirava a un enigma più grande.
— La seconda apertura che abbiamo superato nella cripta. Adesso cerca una porta sulla destra, una porta di legno. Forse l’abbiamo già passata…
Arha udì le mani di Kossil che brancolavano inquiete lungo la parete, strusciando contro la roccia scabra. Lei continuava a tenere i polpastrelli posati leggermente sulla pietra, e dopo un istante sentì la liscia grana del legno. Spinse, e la porta si aprì cigolando, senza difficoltà. Lei rimase immobile per un momento, abbacinata dalla luce.
Entrarono in una grande camera bassa, dalle pareti di pietra intagliata, illuminata da un’unica torcia fumigante appesa a una catena. L’aria era ammorbata dal fumo della torcia, che non aveva sfogo. Gli occhi di Arha presero a bruciare e lacrimare.
— Dove sono i prigionieri?
— Là.
Infine lei si accorse che i tre mucchi informi, in fondo alla camera, erano uomini.
— La porta non è chiusa a chiave. Non ci sono guardie?