Arha era d’accordo con Penthe, perché segretamente aveva finito col considerare i sedicenti imperatori divini di Kargad alla stregua di dèi falsi e arrivisti che cercavano di usurpare la venerazione dovuta alle vere ed eterne Potenze. Ma nelle parole di Penthe c’era qualcosa che non approvava, qualcosa di completamente nuovo per lei, qualcosa di spaventoso. Non si era mai accorta che la gente era molto diversa e vedeva la vita in un modo molto diverso. Aveva la sensazione di aver alzato all’improvviso la testa e di aver visto librarsi oltre la finestra un nuovo pianeta immenso e popoloso, un mondo interamente sconosciuto in cui gli dèi non contavano nulla. Era spaventata dalla concretezza dell’empietà di Penthe. Impaurita, scattò.
— È vero. I miei Padroni sono morti da molto, molto tempo; e non sono uomini… Sai, Penthe, potrei chiamarti al servizio delle tombe. — Parlò gentilmente, come se offrisse all’amica un’occasione migliore.
Il colore roseo defluì dalle guance di Penthe.
— Sì — disse lei. — Potresti farlo. Ma io non sono… non sono il tipo adatto.
— Perché?
— Ho paura del buio — rispose Penthe, a voce bassa.
Arha fece udire un breve sbuffo di disprezzo, ma era compiaciuta. Aveva dimostrato ciò che voleva. Penthe poteva non credere agli dèi, ma temeva le innominabili potenze delle tenebre… come tutte le anime mortali.
— Non lo farei a meno che tu lo volessi, lo sai — disse Arha. Tra loro scese un lungo silenzio.
— Stai diventando sempre più simile a Thar — riprese Penthe, con quel suo fare tenero e sognante. — Grazie al cielo, non stai diventando come Kossil! Ma tu sei così forte. Vorrei essere forte anch’io. A me piace solo mangiare…
— E allora continua — disse Arha, con superiorità divertita, e poco alla volta Penthe consumò la terza mela fino al torsolo. Un paio di giorni dopo, le esigenze dell’eterno rituale del Luogo strapparono Arha alla sua solitudine. Una capra aveva partorito due capretti gemelli fuori stagione, e secondo la consuetudine dovevano essere sacrificati agli dèi gemelli: era un rito importante, e la Prima Sacerdotessa doveva partecipare. Inoltre era il novilunio, e si dovevano compiere le cerimonie delle tenebre davanti al trono vuoto. Arha aspirò gli inebrianti fumi delle erbe che bruciavano in larghi vassoi di bronzo davanti al trono, e danzò, solitaria, avvolta nelle vesti nere. Danzò per gli spiriti invisibili dei morti e dei non nati, e mentre danzava gli spiriti affollarono l’aria intorno a lei seguendo le giravolte dei suoi piedi e i gesti lenti e sicuri delle sue braccia. Cantò i canti di cui nessuno comprendeva le parole e che lei aveva appreso sillaba per sillaba da Thar, molto tempo prima. Un coro di sacerdotesse nascoste nella penombra dietro la duplice grande fila di colonne faceva eco alle strane parole, ripetendole dopo di lei, e l’aria dell’immensa navata in rovina vibrava di voci come se anche la folla degli spiriti ripetesse incessantemente quei canti.
Il re-dio, che regnava dal suo palazzo ad Awabath, non inviò altri prigionieri al Luogo, e a poco a poco Arha smise di sognare i tre che erano morti ormai da molto tempo e sepolti in tombe poco profonde nella grande caverna sotto le Pietre.
Arha chiamò a raccolta tutto il coraggio per tornare in quella caverna. Doveva andarci: la Sacerdotessa delle Tombe doveva entrare nel suo dominio senza terrore, e conoscerne le vie.
La prima volta che varcò la botola fu difficile, ma meno difficile di quanto avesse temuto. Si era preparata, aveva deciso che sarebbe andata sola e non avrebbe perso la testa, e quando vi giunse rimase quasi sgomenta scoprendo che non c’era nulla da temere. Potevano esserci le tombe, ma lei non le vedeva: non vedeva nulla. Era buio e c’era silenzio: e questo era tutto.
Continuò ad andarci, passando sempre per la botola nella stanza dietro il trono, fino a quando imparò a conoscere bene l’intero circuito della caverna, con le sue strane pareti scolpite: bene per quanto poteva conoscerlo senza vederlo. Non si scostava mai dalle pareti, perché attraversando la grande cavità avrebbe potuto perdere il senso dell’orientamento nell’oscurità e tornando a tentoni a una parete non avrebbe saputo dove si trovava. Come aveva imparato la prima volta, là nei luoghi tenebrosi la cosa più importante era di sapere quali svolte e quali aperture aveva superato e quali l’attendevano ancora. Doveva procedere contando, perché erano tutte uguali sotto le sue dita brancolanti. La sua memoria era stata ben addestrata, e lei non aveva difficoltà in quello strano compito di trovare la strada al tatto e contando, invece di affidarsi alla vista e al buonsenso. Ben presto conobbe a memoria tutti i corridoi che partivano dalla cripta, il labirinto minore situato sotto il palazzo del trono e la cima della collina. Ma c’era un corridoio dove non si era mai addentrata: il secondo a sinistra dall’entrata nella roccia rossa, quello da cui, se vi fosse penetrata scambiandolo per un altro che conosceva, forse non sarebbe mai uscita. Il suo desiderio di entrarvi, di scoprire il labirinto, cresceva continuamente: ma lei lo dominava, in attesa di aver imparato tutto ciò che poteva.
Thar ne sapeva ben poco, tranne i nomi di certe camere e l’elenco delle direzioni da prendere e delle svolte da seguire e da omettere per arrivarvi. Lo diceva ad Arha, ma non le disegnava mai nella polvere e neppure con un gesto della mano nell’aria: e lei stessa non le aveva mai percorse, non era mai penetrata nel labirinto. Ma quando Arha le chiedeva «Qual è la via che conduce dalla porta di ferro aperta alla Camera Dipinta?», oppure «Come procede il percorso dalla Camera delle Ossa fino alla galleria presso il fiume?», allora Thar rimaneva per un po’ in silenzio e poi recitava le strane istruzioni che aveva appreso molto tempo prima dall’Arha precedente: tanti varchi da superare, tante svolte a sinistra, e così via e così via. E Arha imparava tutto a memoria, come aveva fatto Thar, spesso dopo aver ascoltato una volta soltanto. Quando giaceva sveglia nel suo letto, la notte, le ripeteva a se stessa, cercando di immaginare i luoghi, le camere, le svolte.
Thar mostrò ad Arha i numerosi spioncini che si aprivano sul labirinto, in tutti gli edifici e i templi del Luogo, e perfino sotto le rocce all’aperto. La ragnatela delle gallerie dalle pareti di pietra si stendeva sotto l’intero Luogo, e addirittura oltre le sue mura: c’erano miglia e miglia di corridoi, laggiù nelle tenebre. Tranne lei, le due somme sacerdotesse e i loro servitori personali, gli eunuchi Manan, Uahto e Duby, nessuno conosceva l’esistenza del labirinto che si stendeva sotto ogni loro passo. Tra gli altri, correvano vaghe dicerie: tutti sapevano che c’erano grotte o camere sotto le Pietre. Ma nessuno si mostrava troppo curioso, per quanto riguardava i Senza Nome e i luoghi a loro sacri. Forse pensavano che era meglio saperne molto poco. Arha, naturalmente, aveva sempre provato un’intensa curiosità, e poiché sapeva che c’erano spioncini affacciati sul labirinto li aveva cercati; eppure erano nascosti così bene, nei pavimenti o nel terreno deserto, che non ne aveva trovato nemmeno uno, neppure quello nella Casa Piccola, la sua casa, finché Thar gliel’aveva mostrato.
Una notte, all’inizio della primavera, prese una lanterna a candela e la portò giù, senza accenderla, attraverso la cripta, fino alla seconda galleria a sinistra del corridoio proveniente dalla porta nella roccia rossa.
Al buio, si addentrò per una trentina di passi nella galleria e poi varcò una porta, tastando l’intelaiatura di ferro incastonata nella roccia: quello era il limite attuale delle sue esplorazioni. Oltre la Porta di Ferro procedette per un lungo tratto; e quando finalmente la galleria incominciò a curvare verso destra, lei accese la candela e si guardò intorno. Perché lì la luce era consentita. Non era più nella cripta. Era in un luogo meno sacro, anche se forse più spaventoso. Era nel labirinto.