Выбрать главу

Poiché Arha aveva imparato — dalla dolce Penthe — l’esistenza dell’ateismo, e l’aveva accettato come realtà anche se le faceva paura, aveva potuto guardare Kossil con maggiore fermezza, e l’aveva compresa. Kossil, in cuor suo, non nutriva la minima venerazione per i Senza Nome o per gli dèi. Non considerava sacro null’altro che il potere. Adesso l’imperatore delle Terre di Kargad deteneva il potere: quindi ai suoi occhi era davvero un re-dio, e lei l’avrebbe servito devotamente. Ma per lei i templi erano soltanto apparenza, le Pietre erano soltanto sassi, le Tombe di Atuan erano gallerie tenebrose scavate nella terra, terribili ma vuote. Se avesse potuto, avrebbe abbandonato il culto del Trono Vuoto. Se avesse osato, avrebbe liquidato la Prima Sacerdotessa.

Arha affrontò con fermezza anche quest’ultimo fatto. Forse Thar l’aveva aiutata a capirlo, benché direttamente non avesse mai detto nulla. Durante i primi stadi della sua infermità, prima che il silenzio scendesse sopra di lei, aveva chiesto ad Arha di recarsi a visitarla quasi tutti i giorni, e le aveva parlato, le aveva detto molte cose delle azioni del re-dio e del suo predecessore, e delle consuetudini di Awabath: erano cose che lei doveva conoscere, perché era una sacerdotessa importante, ma che spesso non tornavano a onore del re-dio e della sua corte. E aveva parlato della propria vita, e aveva raccontato com’era stata e cos’aveva fatto l’Arha dell’incarnazione precedente; e qualche volta, ma non spesso, aveva accennato ai possibili intoppi e pericoli della vita attuale di Arha. Neppure una volta aveva nominato Kossil. Ma Arha era stata allieva di Thar per undici anni, e le bastava un accenno o un tono per comprendere e per ricordare.

Dopo il lugubre subbuglio dei Riti del Lutto, Arha incominciò a evitare Kossil. Quando i lunghi lavori e rituali della giornata si erano conclusi, se ne andava nella sua dimora solitaria; e ogni volta che ne aveva il tempo, andava nella stanza dietro il trono e apriva la botola e scendeva nella tenebra. Di giorno e di notte, poiché là non c’era differenza, proseguiva un’esplorazione sistematica del suo dominio. La cripta, con la sua immensa sacralità, era vietata a tutti tranne le sacerdotesse e i loro eunuchi più fidati. Chiunque altro vi si fosse avventurato, uomo o donna, sarebbe stato certamente ucciso dall’ira dei senza Nome. Ma tra tutte le regole che Arha aveva imparato, non ce n’era nessuna che proibisse l’accesso al labirinto. Non era necessario. Vi si poteva penetrare solo passando dalla cripta; e del resto, le mosche hanno forse bisogno di regole che dicano loro di non entrare in una ragnatela?

Perciò lei conduceva spesso Manan nelle zone più vicine del labirinto, perché ne imparasse la strada. Manan non era per nulla entusiasta di andarvi, ma le ubbidiva come sempre. Lei si accertò che Duby e Uahto, gli eunuchi di Kossil, conoscessero la strada della Camera delle Catene e la via d’uscita dalla cripta, ma null’altro; non li conduceva mai nel labirinto. Non voleva che nessuno, eccettuato il fedelissimo Manan, conoscesse quelle vie segrete. Perché erano sue, soltanto sue, per sempre. Aveva incominciato l’esplorazione completa del labirinto. Durante tutto l’autunno, passò molti giorni seguendo quei corridoi interminabili; eppure c’erano ancora certe parti che non aveva mai raggiunto. Si stancava a percorrere quell’immensa e insensata ragnatela di corridoi: le gambe s’indolenzivano, la mente si annoiava a calcolare senza sosta le svolte e i passaggi. Il labirinto era meraviglioso, e si snodava nella compatta roccia sotterranea come le strade di una grande città: ma era stato creato per stancare e confondere il mortale che vi si aggirava, e perfino la sua sacerdotessa sentiva che in fin dei conti era solo una grande trappola.

Perciò, via via che avanzava l’inverno, lei dedicò sempre di più le sue meticolose esplorazioni alla sala, agli altari, alle alcove dietro e sotto gli altari, alle camere dei cofani e delle casse, al contenuto delle casse e dei cofani, a corridoi e soffitte, alla polverosa cavità sotto la cupola dove si annidavano centinaia di pipistrelli, alle cantine e sottocantine che erano l’anticamera dei corridoi di tenebra.

Con le mani e le maniche profumate dalla dolcezza di un muschio trasformato in polvere rimasta per otto secoli in uno scrigno di ferro, la fronte macchiata dal viscoso sgorbio nero di una ragnatela, restava inginocchiata per un’ora a studiare i rilievi di un bellissimo cofano di legno di cedro, rovinato dal tempo, donato da qualche re, secoli addietro, alle Potenze Senza Nome delle Tombe. C’era il re, una figuretta rigida dal grosso naso, e c’era il palazzo del trono con la cupola piatta e il pronao scolpiti in delicato rilievo sul legno da un artista divenuto polvere da chissà quanti secoli. C’era l’Unica Sacerdotessa, che aspirava i fumi drogati dei vassoi bronzei e profetizzava o consigliava il re, che in quella formella aveva il naso rotto; il volto della Sacerdotessa era troppo piccolo per avere lineamenti nitidi, tuttavia Arha immaginava che fosse il suo. Si domandava cos’aveva detto al re dal grosso naso, e se lui gliene era stato riconoscente.

Aveva i suoi posti preferiti, nel palazzo del trono, così come un’altra avrebbe avuto i suoi posti preferiti per mettersi a sedere in una casa soleggiata. Spesso saliva in una specie di soffitta in una delle sacrestie, nella parte posteriore del palazzo. Vi erano conservate antiche vesti, reliquie dei giorni in cui grandi signori e re venivano in pellegrinaggio al Luogo delle Tombe di Atuan, riconoscendo un dominio più grande del loro e di ogni altro uomo. Talvolta le loro figlie, le principesse, avevano indossato quelle morbide sete bianche, ricamate di topazi e di ametiste scure, e avevano danzato con la Sacerdotessa delle Tombe. In una delle tesorerie c’erano minuscole tavolette d’avorio dipinto che mostravano quelle danze, con i re e i nobili che attendevano fuori dal palazzo perché ormai gli uomini non mettevano più piede sul colle delle tombe. Ma le ragazze potevano entrare e danzare con la Sacerdotessa, avvolte nelle sete candide. La Sacerdotessa portava le vesti nere tessute in casa, sempre, allora come adesso; ma ad Arha piaceva venire ad accarezzare quella stoffa morbida e dolce, imputridita dagli anni, con le gemme imperiture che si staccavano dalla stoffa per il loro lieve peso. In quelle cassapanche c’era un profumo diverso da tutti i muschi e gli incensi dei templi del Luogo: un profumo più fresco, più fievole, più giovane.

Nelle stanze del tesoro, Arha era capace di trascorrere una notte a scoprire il contenuto di un unico cofano, gioiello per gioiello: l’armatura arrugginita, i pennacchi spezzati degli elmi, le fibbie e gli spilloni di bronzo, d’argento dorato e d’oro massiccio.

I gufi, indisturbati dalla sua presenza, stavano appollaiati sulle travi e aprivano e chiudevano i gialli occhi. Fra le tegole del tetto brillava una stella; oppure scendeva la neve, finissima e fredda come quelle sete antiche che andavano in polvere a toccarle.

Una notte del tardo inverno, nel palazzo era troppo freddo. Arha andò alla botola, la sollevò, scese i gradini, e la richiuse. Si avviò in silenzio lungo il percorso che conosceva tanto bene, il corridoio che portava alla cripta. Là, naturalmente, non accendeva mai una luce; se portava una lanterna, perché doveva addentrarsi nel labirinto o risalire nell’oscurità della notte, la spegneva prima di giungere alla cripta. Non aveva mai visto quel posto, mai, in tutte le generazioni del suo sacerdozio. Nel corridoio soffiò sulla candela e senza rallentare il passo avanzò nella tenebra, disinvolta come un pesciolino nell’acqua buia. Lì, d’inverno o d’estate, non c’era mai né caldo né freddo: c’era sempre la solita frescura un po’ umida, immutabile. Lassù, i grandi venti gelidi dell’inverno lanciavano la neve finissima sul deserto. Lì non c’era vento, non c’erano stagioni: era chiuso, era immoto, era sicuro.

Arha stava andando verso la Camera Dipinta. Le piaceva andare là, talvolta, a scrutare gli strani affreschi che al lume della sua candela balzavano dall’oscurità: uomini dalle lunghe ali e dai grandi occhi, sereni e cupi. Nessuno sapeva dirle chi erano, e nel resto del Luogo non c’erano dipinti come quelli, ma lei credeva di saperlo: erano gli spiriti dei dannati, coloro che non rinascono. La Camera Dipinta era nel labirinto, perciò lei doveva prima attraversare la caverna sotto le Pietre. Mentre si avvicinava, lungo il corridoio in discesa, fiorì un grigiore lieve, un barlume, l’eco di un’eco di una luce lontana.