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Eppure, mentre pregava, vedeva con l’occhio della mente il tremulo splendore della grotta illuminata, la vita nel luogo della morte; e invece del terrore per il sacrilegio e del furore contro il ladro, provava soltanto stupore per quella stranezza.

—  Cosa devo dire a Kossil? — si chiese, mentre usciva nelle raffiche del vento invernale e si stringeva nel mantello. — Nulla. Non ancora. Io sono la padrona del labirinto. Non riguarda il re-dio. Lo dirò a Kossil dopo che il ladro sarà morto, forse. Come devo ucciderlo? Dovrei chiamare Kossil perché lo guardi morire. A lei la morte piace. Ma cosa stava cercando, quell’uomo? Dev’essere pazzo. Come ha potuto entrare? Soltanto io e Kossil abbiamo le chiavi della porta nelle rocce rosse e della botola. Dev’essere entrato dalla porta nelle rocce rosse. Solo un incantatore potrebbe aprirla. Un incantatore…

Si fermò, nonostante il vento che minacciava di travolgerla.

—  È un incantatore, un mago delle Terre Interne, alla ricerca dell’amuleto di Erreth-Akbe.

E tutto questo aveva un fascino così oltraggioso che lei si sentì riscaldare perfino in quel vento gelido, e rise forte. Tutt’intorno, il Luogo e il deserto che lo circondava erano neri e silenti; il vento gemeva; non c’erano luci, laggiù nella Casa Grande. La neve fine e invisibile volava nel vento.

—  Se ha aperto la porta delle rocce rosse con la magia, può aprirne altre. Può fuggire.

Il pensiero l’agghiacciò per un momento, ma non la convinse. I Senza Nome l’avevano lasciato entrare. Perché no? Lui non poteva fare del male. Che male fa un ladro se non può lasciare la scena del furto? Doveva disporre di sortilegi e di poteri maligni, senza dubbio molto forti, se si era spinto così lontano; ma non sarebbe andato oltre. Nessun sortilegio gettato da un mortale poteva essere più potente della volontà dei Senza Nome, delle presenze nelle tombe, dei re del trono vuoto.

Per rassicurarsi, Arha si affrettò a raggiungere la Casa Piccola. Manan dormiva sotto il portico, avvolto nel mantello e nella logora coperta di pelliccia che era il suo letto invernale. Lei entrò senza far rumore per non destarlo, e senza accendere la lampada. Aprì una stanzetta chiusa a chiave, un ripostiglio in fondo al corridoio. Fece schizzare una scintilla con la pietra focaia, per il tempo necessario per trovare un certo punto nel pavimento; s’inginocchiò e sollevò una piastrella, forzandola. Le sue dita incontrarono un pezzo di stoffa sudicia e pesante, poco più ampio di una spanna. Lo scostò, adagio. E si ritrasse con un sussulto, perché un raggio di luce salì dal basso e le investì il volto.

Dopo un attimo, cautamente, guardò nell’apertura. Aveva dimenticato che l’uomo portava quella strana luce, sul bastone. Aveva pensato che al massimo l’avrebbe sentito, laggiù nell’oscurità. Aveva dimenticato la luce, ma l’uomo era proprio dove lei aveva previsto che fosse: esattamente sotto lo spioncino, accanto alla porta di ferro che gli impediva di uscire dal labirinto.

L’uomo stava là, con una mano sul fianco, e con l’altra protendeva il bastone di legno, alto quanto lui, dalla cui sommità scaturiva il fievole fuoco fatuo. La testa, che Arha vedeva da un’altezza di due braccia, era un po’ inclinata da una parte. Gli abiti erano quelli di un viaggiatore o di un pellegrino, nei mesi invernali: un mantello corto e pesante, una tunica di cuoio, gambali di lana, sandali allacciati; sul dorso portava uno zaino leggero cui era appesa una borraccia per l’acqua, e al fianco aveva un coltello chiuso nel fodero. Era immobile come una statua, tranquillo e pensieroso.

Lentamente, sollevò il bastone dal suolo e ne protese la punta luminosa verso la porta (che Arha, dallo spioncino, non poteva vedere). La luce cambiò, rimpicciolì, divenne più fulgida, di uno splendore intenso. L’uomo parlò, a voce alta. Parlava in una lingua che ad Arha era sconosciuta; ma ancora più strana delle parole era la voce, profonda e risonante.

La luce in cima al bastone si ravvivò, guizzò, si affievolì. Per un attimo si smorzò completamente, e Arha non vide più l’uomo.

Riapparve la luce viola-pallido del fuoco fatuo, e Arha vide che l’uomo si girava dando le spalle alla porta. L’incantesimo per aprirla era fallito. I poteri che tenevano chiusa la serratura di quella porta erano più forti della magia posseduta dallo sconosciuto.

Lui si guardava intorno, come se si domandasse cosa doveva fare.

Il corridoio in cui si trovava era largo all’incirca un braccio e mezzo, e il soffitto era a quattro o cinque braccia dal pavimento di roccia grezza. Lì le pareti erano di pietre lavorate, disposte a secco ma commesse con cura estrema, così che sarebbe stato difficile infilare la punta di un coltello nelle giunture: e si inclinavano verso l’interno, salendo, fino a formare una volta.

Non c’era null’altro.

L’uomo si mosse. Un passo lo condusse fuori dalla visuale di Arha. La luce si spense. Lei stava per rimettere a posto il tessuto e la piastrella quando il raggio di luce salì di nuovo dal pavimento davanti a lei. L’uomo era ritornato alla porta. Forse aveva compreso che, se l’avesse lasciata e fosse penetrato nel labirinto, molto probabilmente non l’avrebbe ritrovata mai più.

Parlò, una parola soltanto, a voce bassa. — Emenn - disse, e poi di nuovo, più forte: — Emenn! - E la porta di ferro si squassò sui cardini, echi sommessi ondeggiarono come tuoni nel corridoio a volta, e ad Arha parve che il pavimento tremasse sotto di lei.

Ma la porta rimase chiusa.

Allora l’uomo rise, una risata breve, la risata di chi pensa «Quanto sono stato sciocco!». Girò di nuovo lo sguardo sulle pareti, e quando alzò la testa, Arha vide il sorriso che indugiava sul suo volto scuro. Poi si sedette, si tolse lo zaino dalle spalle, estrasse un pezzo di pan secco e lo masticò. Stappò la borraccia di cuoio e la scosse: sembrava leggera nella sua mano, come se fosse quasi vuota. La tappò di nuovo, senza bere. Poi assestò lo zaino per guanciale, si strinse nel mantello, e si sdraiò. Teneva il bastone nella destra. Quando si distese, il fuoco fatuo o la sfera di luce salì fluttuando dal bastone e aleggiò dietro la sua testa, a poche spanne dal suolo. La mano sinistra riposava sul petto, stringendo qualcosa che pendeva al collo da una lunga catena. L’uomo giaceva tranquillo, con le gambe incrociate alle caviglie; il suo sguardo vagò sullo spioncino e se ne distolse. Sospirò e chiuse gli occhi. Lentamente, la luce si affievolì. L’uomo si addormentò.

La mano stretta sul petto si allentò e scivolò via, e Arha, dall’alto, vide il talismano appeso alla catena: sembrava un pezzo di metallo grezzo, a forma di mezzaluna.

La fioca luce della magia si spense. L’uomo giaceva nel silenzio e nell’oscurità.

Arha rimise a posto la stoffa e sistemò la piastrella, si alzò cautamente e andò nella sua stanza. Giacque a lungo sveglia, nell’oscurità risonante di vento, vedendo sempre davanti a sé lo splendore cristallino che aveva brillato nella casa della morte, il dolce fuoco che non bruciava, le pietre delle pareti del corridoio, il volto tranquillo dell’uomo addormentato.

LA TRAPPOLA

Il giorno seguente, quando ebbe completato i suoi doveri nei vari templi ed ebbe terminato di insegnare le danze sacre alle novizie, Arha tornò furtivamente alla Casa Piccola, oscurò la stanza, aprì lo spioncino e scrutò. La luce non c’era. L’uomo se n’era andato. Lei non aveva pensato che sarebbe rimasto a lungo davanti alla porta inarrendevole: ma era l’unico posto da cui potesse guardare. Come l’avrebbe ritrovato, adesso che si era smarrito?

Le gallerie del labirinto, a quanto lei sapeva dalle spiegazioni di Thar e dalla propria esperienza, si stendevano per più di venti miglia di diramazioni, spirali, tortuosità e vicoli ciechi. In linea retta, probabilmente, il corridoio che si trovava più lontano dalle tombe non distava più di un miglio. Ma laggiù, sottoterra, non c’erano linee rette. Tutte le gallerie s’incurvavano, si dividevano, si ricongiungevano, si ramificavano, s’intrecciavano, si annodavano, tracciavano percorsi complicati che finivano nel punto dove cominciavano, perché non c’erano né principio né fine. Si poteva camminare e camminare e non arrivare mai in nessun posto, perché non c’era una meta cui giungere. Il meandro non aveva un centro, un cuore. E quando la porta era chiusa, non aveva fine. Nessuna direzione inutile.