Sebbene le vie e le svolte che portavano nelle varie camere e nelle varie parti di quel dedalo fossero impresse chiaramente nella memoria di Arha, nelle sue esplorazioni più lunghe lei aveva portato con sé un gomitolo di filo finissimo e l’aveva svolto dietro di sé, riavvolgendolo al ritorno. Se le sfuggiva uno solo dei passaggi e delle svolte che doveva contare, perfino lei avrebbe potuto smarrirsi. Una lampada non serviva a nulla, perché non c’erano punti di riferimento. Tutti i corridoi e le porte e le aperture erano uguali.
L’uomo poteva essere ormai lontano molte miglia di cammino e tuttavia essere ancora a dodici braccia dalla porta da cui era entrato.
Arha andò al palazzo del trono, e al tempio degli dèi gemelli, e nella cantina sotto le cucine; e scegliendo i momenti in cui era rimasta sola, guardò attraverso ciascuno di quegli spioncini nella tenebra densa e fredda. Quando venne la notte, gelida e folgorante di stelle, lei si recò in certi punti della collina e sollevò certe pietre: asportò il terriccio, scrutò di nuovo, e vide la tenebra senza stelle dei sotterranei.
Lui era là. Doveva essere là. Eppure le era sfuggito. Sarebbe morto di sete prima che lei lo trovasse. Avrebbe dovuto mandare Manan nel labirinto a cercarlo, quando fosse stata certa che era morto. E questo era un pensiero insopportabile. Mentre s’inginocchiava nella luce delle stelle, sull’aspro terreno della collina, gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia.
Raggiunse il sentiero che riconduceva giù fino al tempio del re-dio. Le colonne dei capitelli scolpiti splendevano bianche di brina nella luce delle stelle, come pilastri d’avorio. Lei bussò alla porta posteriore, e Kossil la fece entrare.
— Cosa desidera la mia padrona? — chiese, fredda e vigile.
— Sacerdotessa, c’è un uomo nel labirinto.
Kossil fu colta alla sprovvista: una volta tanto era accaduto qualcosa che non si aspettava. Restò immobile, e i suoi occhi sbarrati parvero quasi uscire dalle orbite. Arha pensò fuggevolmente che Kossil somigliava molto a Penthe quando la imitava: una risata folle le salì alla gola, venne repressa e si spense.
— Un uomo? Nel labirinto?
— Un uomo, un estraneo. — Poi, mentre Kossil continuava a guardarla incredula, Arha aggiunse: — So riconoscere un uomo a prima vista, anche se ne ho incontrati pochissimi.
Kossil non badò alla sua ironia. — E come ha potuto entrarvi, un uomo?
— Per mezzo della stregoneria, credo. Ha la carnagione scura, e forse viene dalle Terre Interne. È venuto per derubare le tombe. L’ho trovato la prima volta nella cripta, sotto le Pietre. È corso all’entrata del labirinto quando si è accorto della mia presenza, come se sapesse dove andava. Ho chiuso la porta di ferro dietro di lui. Lui ha operato sortilegi, ma non è bastato per aprire la porta. Questa mattina si è addentrato nei meandri. Ora non riesco più a rintracciarlo.
— Ha una lampada?
— Sì.
— Acqua?
— Una piccola borraccia, e non è piena.
— La sua candela si sarà già consumata — fece pensierosa Kossil. — Quattro o cinque giorni. Forse sei. Poi potrai mandare i miei custodi a trascinarne fuori il cadavere. Il sangue dovrebbe essere offerto al trono e alle…
— No — disse Arha, con improvvisa violenza. — Voglio trovarlo vivo.
La sacerdotessa squadrò la ragazza dall’alto della propria statura massiccia. — Perché?
— Per… per prolungare la sua fine. Ha commesso un sacrilegio contro i Senza Nome. Ha profanato la cripta con la luce. È venuto per derubare le tombe dei loro tesori. Va punito con qualcosa di peggio che sdraiarsi in una galleria a morire.
— Sì — disse Kossil, riflettendo. — Ma come lo catturerai, padrona? È problematico. Ma l’altro modo è sicuro. Non c’è una camera piena di ossa, in qualche punto del labirinto, ossa degli uomini che vi sono entrati e non ne sono più usciti?… Lascia che i Tenebrosi lo puniscano a modo loro, nel modo tenebroso del labirinto. È una morte crudele, la morte per sete.
— Lo so — replicò Arha. Si voltò e uscì nella notte, alzando il cappuccio per proteggersi dal gelido vento sibilante. Non lo sapeva, forse?
Era stata un’azione puerile e stupida, rivolgersi a Kossil. Da lei non avrebbe avuto aiuti. Kossil non sapeva nulla: conosceva solo la fredda attesa e alla fine la morte. Kossil non comprendeva. Non capiva che era necessario trovare l’uomo. Non doveva avvenire com’era avvenuto con gli altri. Lei non l’avrebbe sopportato. Poiché doveva essere la morte, doveva essere rapida, alla luce del giorno. Indubbiamente sarebbe stato più giusto che il ladro, il primo uomo dopo tanti secoli che avesse avuto l’ardire di derubare le tombe, morisse di spada. Non aveva neppure un’anima immortale destinata alla rinascita. Il suo spettro si sarebbe aggirato gemendo nei corridoi. Non si poteva lasciarlo morire di sete lì nell’oscurità.
Quella notte, Arha dormì pochissimo. Il giorno seguente fu pieno di riti e di doveri. A sera, in silenzio e senza lanterna, lei andò da uno spioncino all’altro in tutti gli edifici bui del Luogo e della collina spazzata dal vento. Infine ritornò alla Casa Piccola per riposare, due o tre ore prima dell’alba, ma non trovò requie. Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, si avviò sola nel deserto, verso il fiume che adesso era basso per la siccità invernale, col ghiaccio tra i canneti. Aveva ricordato che una volta, in autunno, si era spinta molto lontano nel labirinto, oltre il Crocicchio delle Sei Vie, e lungo un corridoio curvilineo aveva udito, al di là delle pietre, il suono dell’acqua corrente. Un uomo assetato, se fosse giunto fin là, non vi sarebbe rimasto? C’erano spioncini perfino lì; dovette cercarli, ma Thar glieli aveva mostrati tutti, l’anno precedente, e li ritrovò senza troppe difficoltà. La sua memoria dei luoghi e delle forme era simile a quella di un cieco: sembrava che lei cercasse al tatto la via verso ogni punto nascosto, anziché trovarlo con lo sguardo. Al secondo spioncino, il più lontano dalle tombe, quando alzò il cappuccio per escludere la luce e accostò l’occhio al foro intagliato in una lastra di roccia piatta, vide sotto di sé il fioco barlume della lampada magica.
L’uomo era lì, seminascosto. Lo spioncino si affacciava sull’estremità del vicolo cieco. Arha poteva vedere solo il dorso, il collo piegato, e il braccio destro. Era seduto accanto all’angolo delle pareti e scalpellava le pietre con il coltello, un corto pugnale d’acciaio dall’impugnatura ingemmata. La lama era spezzata. La punta giaceva esattamente sotto lo spioncino. L’uomo l’aveva rotta cercando di svellere le pietre, di raggiungere l’acqua che sentiva scorrere limpida e mormorante nel mortale silenzio del sotterraneo, dall’altra parte dell’impenetrabile muraglia.
I movimenti dell’uomo erano apatici. Dopo quelle tre notti e quei tre giorni era molto diverso dalla figura che aveva sostato agile e calma davanti alla porta di ferro e aveva riso della propria sconfitta. Era ancora ostinato, ma l’energia l’aveva abbandonato. Non possedeva un sortilegio per scostare le pietre, ma doveva servirsi di quell’inutile coltello. Perfino la luce incantata era fioca e fosca. Mentre Arha l’osservava, la luce guizzò abbassandosi: l’uomo alzò la testa con un sussulto e lasciò cadere il pugnale. Poi, caparbiamente, lo raccolse e cercò d’insinuare tra le pietre la lama spezzata.