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Il prigioniero uscì, con le braccia legate dalla cintura di cuoio di Manan. L’eunuco lo seguiva, tenendolo come un cane a guinzaglio corto, ma il collare era intorno alla sua vita e il guinzaglio era di ferro. L’uomo voltò gli occhi verso di lei, ma Arha spense la candela e senza dire una parola si avviò nell’oscurità. Subito prese il passo lento ma sicuro che teneva solitamente quando non usava la lampada nel labirinto, sfiorando con la punta delle dita l’una e l’altra parete. Manan e il prigioniero la seguivano, molto più impacciati a causa del guinzaglio, e strascicavano i piedi e incespicavano. Ma dovevano procedere al buio, perché Arha non voleva che nessuno dei due imparasse la strada.

Una svolta a sinistra dalla Camera Dipinta, poi superare due aperture; arrivare fino alle Quattro Vie e oltrepassare l’apertura sulla destra; poi un lungo percorso curvilineo e una scala da scendere, lunga, sdrucciolevole, con i gradini troppo stretti per piedi umani. Arha non si era mai spinta oltre quella scala.

L’aria era più malsana, lì: immobile, e con un odore acuto. Le istruzioni erano chiare nella sua mente, e perfino il tono della voce di Thar che gliele insegnava. Giù per i gradini (il prigioniero incespicò nella tenebra, e lei l’udì ansimare quando Manan lo tenne in piedi con un poderoso strattone alla catena), e ai piedi della scala svoltare subito a sinistra. Poi continuare sulla sinistra per tre aperture, e poi prendere la prima a destra e tenersi sulla destra. Le gallerie curvavano e svoltavano: nessuna procedeva diritta. «Poi devi girare intorno all’Abisso — disse la voce di Thar, nell’oscurità della sua mente. — E la via è molto stretta.»

Arha rallentò il passo, si chinò, tastò il pavimento con la mano. Il corridoio, adesso, proseguiva diritto per un lungo tratto, dando una falsa sicurezza. All’improvviso la sua mano brancolante, che non aveva mai smesso di toccare la roccia, non sentì nulla. C’era l’orlo della pietra: e oltre quell’orlo, il vuoto. Sulla destra, la parete del corridoio scendeva a perpendicolo nell’abisso. Sulla sinistra c’era un cornicione, non più largo di una spanna.

—  C’è un abisso. Voltatevi verso la parete a sinistra, e camminate di sbieco. Fate scivolare i piedi. Tieni stretta la catena, Manan… Siete sul cornicione? Diventa più stretto. Non appoggiate il peso sui talloni. Ecco, ho superato l’abisso. Tendimi la mano. Ecco…

Il corridoio procedeva in brevi zigzag, con molte aperture laterali. Da alcune, mentre le superavano, il suono dei passi echeggiava stranamente, cavernosamente; e, cosa ancora più strana, si sentiva una corrente d’aria lievissima, un’aspirazione. Quei corridoi dovevano terminare in abissi, come quello che avevano superato. Forse, sotto quella parete bassa del labirinto, c’era una cavità, una grotta così immensa che al confronto la cripta sarebbe apparsa ben poca cosa, un enorme e nero e vuoto sotterraneo.

Ma sopra quell’abisso, dove procedevano per i bui passaggi, i corridoi si restringevano lentamente e diventavano più bassi finché Arha fu costretta a fermarsi. Quella strada non avrebbe mai avuto fine?

La fine venne all’improvviso: una porta chiusa. Mentre avanzava china, un po’ più svelta del solito, Arha vi urtò con la testa e le mani. Cercò a tentoni il buco della serratura, poi la piccola chiave infilata nell’anello che portava alla cintura, la chiave d’argento con l’asta a forma di drago: entrò, e girò. Arha aprì la porta del Grande Tesoro delle Tombe di Atuan. L’aria — secca, acre, stantia — uscì con un sospiro dall’oscurità.

—  Manan, qui non puoi entrare. Attendi fuori dalla porta.

—  Lui sì e io no?

—  Se entri in questa stanza, non ne uscirai. È la legge che vale per tutti, eccettuata me. Nessun essere mortale, tranne me, ha mai lasciato vivo questa camera. Vuoi entrare?

—  Attenderò fuori — disse la voce malinconica, nella tenebra. — Padrona, padrona, non chiudere la porta!

Quell’angoscia la snervò tanto che lasciò la porta socchiusa. In verità quel luogo la riempiva di un cupo spavento, e diffidava del prigioniero sebbene fosse legato. Appena entrata, accese la lampada. Le tremavano le mani. La candela s’infiammò con riluttanza: l’aria era morta e soffocante. Nel chiarore giallognolo, che sembrava fulgido dopo le lunghe gallerie di tenebre, la camera del tesoro giganteggiava intorno a loro, piena di ombre in movimento. C’erano sei grandi cofani, tutti di pietra, tutti coperti da una fine polvere grigia, come la muffa del pane. Nient’altro. Le pareti erano scabre, la volta bassa. C’era freddo, un freddo profondo e privo d’aria che sembrava arrestare il sangue nel cuore. Non c’erano ragnatele: soltanto polvere. Nulla viveva, lì: neppure gli scarsi ragnetti bianchi del labirinto. La polvere era spessa, molto spessa, e ogni granello poteva essere un giorno trascorso lì, dove non c’erano né il tempo né la luce: giorni, mesi, anni, epoche, tutti divenuti polvere.

—  Questo è il luogo che cercavi — disse Arha, e la sua voce era ferma. — È il Grande Tesoro delle Tombe. Ci sei arrivato. Non potrai mai lasciarlo.

L’uomo non disse nulla, e il suo volto era quieto, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che la turbò: una desolazione, lo sguardo di chi si sente tradito.

—  Hai detto che volevi rimanere vivo. Questo è l’unico luogo dove puoi restar vivo. Kossil ti ucciderà o mi costringerà a ucciderti, Sparviero. Ma qui non può arrivare.

Lui continuò a tacere.

—  Non avresti mai potuto lasciare le tombe in nessun caso, non capisci? Qui non è diverso. E almeno sei giunto alla… alla fine del tuo viaggio. Quello che cercavi è qui.

L’uomo si sedette su uno dei grandi cofani, esausto, e la catena tintinnò con un suono aspro sulla pietra. Girò lo sguardo sulle grige pareti e sulle ombre, e poi su di lei.

Arha distolse gli occhi e li posò sui cofani di pietra. Non aveva nessun desiderio di aprirli. Non le interessavano le meraviglie che imputridivano là dentro.

—  Non è necessario che tu porti la catena, qui. — Si avvicinò e aprì la serratura della cintura di ferro, e gli sciolse le braccia dalla cintura di cuoio di Manan. — Dovrò chiudere la porta, ma quando verrò qui mi fiderò di te. Tu sai che non puoi andartene… che non devi tentare. Io sono la loro vendetta, io compio la loro volontà. Ma se io li deludessi… se tu tradissi la mia fiducia… allora si vendicherebbero. Non devi tentare di lasciare questa camera, facendomi del male o ingannandomi quando verrò. Devi credermi.

—  Farò come tu dici — mormorò lui, gentilmente.

—  Ti porterò cibo e acqua, quando potrò. Non sarà molto. Acqua a sufficienza, ma non molto cibo, per un po’: ho fame, capisci? Ma quanto basta per tenerti in vita. Forse non potrò tornare per un giorno o due, o anche di più. Devo mettere fuori pista Kossil. Ma verrò. Lo prometto. Ecco la borraccia. Bevi con parsimonia: non potrò ritornare tanto presto. Ma tornerò.

L’uomo alzò il volto verso di lei. La sua espressione era strana. — Abbiti cura, Tenar — disse.

NOMI

Arha ricondusse Manan attraverso i tortuosi percorsi, nell’oscurità, e lo lasciò nella tenebra della cripta, a scavare la fossa che doveva comprovare a Kossil l’avvenuta punizione del ladro. Era tardi, e lei andò direttamente nella Casa Piccola, a letto. Nella notte, si svegliò all’improvviso: ricordò di aver lasciato il mantello nella Camera Dipinta. Lui aveva solo la corta mantellina per riscaldarsi in quella cripta umida, né altro letto che la pietra polverosa. Una fredda tomba, una fredda tomba, pensò dolorosamente Arha; ma era troppo stanca per svegliarsi del tutto, e ben presto ripiombò nel sonno. Cominciò a sognare. Sognò le anime dei morti sulle pareti della Camera Dipinta, e le figure simili a grandi uccelli scarruffati, con mani e piedi e volti umani, acquattati nella polvere dei luoghi tenebrosi. Non potevano volare. L’argilla era il loro cibo, e la polvere la loro bevanda. Erano le anime dei non rinati, i popoli antichi e i miscredenti, coloro che i Senza Nome avevano divorato. Stavano acquattati tutti intorno a lei, nelle ombre, e di tanto in tanto emettevano un lieve suono pigolante, o uno scricchiolio. Uno le venne vicinissimo. In un primo istante lei ebbe paura e cercò di ritrarsi, ma non riuscì a muoversi. L’essere aveva una testa di uccello, non un volto umano; ma i suoi capelli erano aurei, e diceva, con voce di donna, «Tenar», dolcemente, affettuosamente, «Tenar».