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L’uomo ascoltava, con la mano ancora posata sulla mano di lei e la testa un po’ reclinata. Un certo vigore era ritornato nel suo volto e nel suo portamento, sebbene le cicatrici sulla guancia spiccassero di un grigiore livido e ci fosse ancora polvere sui suoi indumenti e sui suoi capelli.

—  L’ho aggirata, passando attraverso la cripta. La sua candela gettava più ombre che luce, e non mi ha sentita. Volevo andare nel labirinto per allontanarmi da lei. Ma quando vi sono entrata, ho continuato ad avere la sensazione di udire i suoi passi che mi seguivano. Per tutti i corridoi ho continuato a sentire qualcuno dietro di me. E non sapevo dove andare. Pensavo che sarei stata al sicuro, qui, pensavo che i miei Padroni mi avrebbero protetta e difesa. Ma non lo fanno, non ci sono più, sono morti…

—  Era per loro che piangevi… per la loro morte? Ma loro sono qui, Tenar, qui!

—  E come puoi saperlo? — chiese lei, apatica.

—  Perché in ogni istante, da quando ho messo piede nella caverna sotto le Pietre Tombali, ho lottato per tenerli immobili, per mantenerli ignari. Tutte le mie facoltà sono impegnate, e in questo ho consumato la mia forza. Ho riempito queste gallerie con una rete interminabile di incantesimi, incantesimi di sonno, di silenzio, di occultamento: eppure sono ancora consapevoli di me, semiconsapevoli. E anche così sono quasi completamente sfinito dalla lotta contro di loro. Questo è un luogo terribile. Un uomo solo, qui, non ha speranza. Io stavo morendo di sete, quando tu mi hai dato l’acqua, eppure non è stata soltanto l’acqua a salvarmi. È stata la forza delle mani che me la porgevano. — E mentre diceva questo, il giovane girò la mano di lei a palmo in su e la guardò; poi si scostò, percorse qualche passo nella camera, e tornò nuovamente a fermarsi davanti a lei. Lei non disse nulla.

—  Pensi davvero che siano morti? In cuor tuo sai benissimo che non è così. Loro non muoiono. Sono tenebrosi e immortali, e odiano la luce: la breve, fulgida luce della nostra mortalità. Sono immortali, ma non sono dèi. Non lo sono mai stati. Non meritano la devozione di nessuna anima umana.

Lei ascoltava, con gli occhi pesanti e lo sguardo fisso sulla lanterna agonizzante.

—  Cosa ti hanno mai dato, Tenar?

—  Nulla — mormorò lei.

—  Non hanno nulla da dare. Non hanno il potere di creare. Il loro potere consiste nell’ottenebrare e nel distruggere. Non possono lasciare questo luogo: loro sono questo luogo; e si dovrebbe lasciarlo a loro. Non si dovrebbe rinnegarli né dimenticarli, ma non si dovrebbe neppure adorarli. La terra è bellissima, e luminosa, e mite, ma non è tutto. La terra è anche terribile, e tenebrosa, e crudele. Il coniglio grida, morendo nei prati verdi. Le montagne contraggono le grandi mani piene di fuoco nascosto. Ci sono squali nel mare, e c’è crudeltà negli occhi degli uomini. E dove gli uomini venerano queste cose e si prosternano davanti a loro, là scaturisce il male: si creano nel mondo luoghi dove si addensa la tenebra, luoghi consegnati completamente a coloro che noi chiamiamo Senza Nome, le antiche e sacre Potenze della Terra prima che venisse la Luce, le potenze della tenebra, della rovina, della follia… Io credo che abbiano fatto impazzire la tua sacerdotessa Kossil già da molto tempo: credo che lei si aggiri in queste caverne come si aggira nei labirinti del suo io, e che ormai non possa più vedere la luce del giorno. Ti ha detto che i Senza Nome sono morti: soltanto un’anima perduta, perduta alla verità, può crederlo. Loro esistono. Ma non sono i tuoi padroni. Non lo sono mai stati. Tu sei libera, Tenar. Ti avevano insegnato a essere una schiava, ma ti sei liberata.

Lei ascoltava, sebbene la sua espressione non mutasse. L’uomo non disse altro. Rimasero in silenzio; ma non era il silenzio che c’era stato in quella camera prima che lei vi entrasse. Adesso c’era il loro respiro, e il movimento della vita nelle loro vene, e la candela che ardeva nella sua lanterna di stagno, un piccolo suono vitale.

—  Come sai il mio nome?

L’uomo camminava avanti e indietro nella camera, sollevando la finissima polvere, stiracchiandosi le braccia e le spalle per liberarsi dal freddo che l’intorpidiva.

—  Conoscere i nomi è il mio mestiere. La mia arte. Per intessere la magia di una cosa, vedi, è necessario scoprire il suo vero nome. Nelle mie terre teniamo segreto il nostro nome per tutta la vita, lo nascondiamo a tutti tranne a coloro di cui ci fidiamo completamente: perché in un nome ci sono un grande potere e un grande pericolo. Una volta, all’inizio del tempo, quando Segoy fece emergere le isole di Earthsea dalle profondità dell’oceano, tutte le cose portavano il loro vero nome. E tutte le opere della magia sono ancora imperniate sulla conoscenza (la riscoperta, il ricordo) di quell’antica e vera lingua della creazione. Ci sono da apprendere gli incantesimi, naturalmente, i modi di usare le parole; ed è necessario anche conoscere le conseguenze. Ma un mago dedica la vita a scoprire i nomi delle cose, e a scoprire i modi di scoprire quei nomi.

—  Come hai scoperto il mio?

Lui la guardò per un momento, uno sguardo profondo e limpido attraverso le ombre. Esitò un istante. — Questo non posso dirtelo. Tu sei come una lanterna coperta e avviluppata, e nascosta in un luogo buio. Eppure la luce risplende: la luce non hanno potuto spegnerla. Non potevano nasconderti. Come conosco la luce, come conosco te, così conosco il tuo nome, Tenar. Questo è il mio dono, il mio potere. Non posso dirti altro. Ma tu dimmi: cosa farai, adesso?

—  Non lo so.

—  Ormai Kossil avrà trovato una fossa vuota. Cosa farà?

—  Non lo so. Se ritorno lassù, lei mi farà uccidere. Per una somma sacerdotessa, mentire è la morte. Potrebbe farmi sacrificare sui gradini del trono, se volesse. E Manan dovrebbe mozzarmi davvero la testa, questa volta, invece di limitarsi ad alzare la spada e ad attendere che la Figura Tenebrosa lo arresti. Questa volta la spada non si fermerebbe: scenderebbe e mi taglierebbe la testa.

La voce di Arha era opaca e lenta. L’uomo aggrottò la fronte. — Se rimarremo qui a lungo — disse, — tu impazzirai. La collera dei Senza Nome pesa sulla tua mente. E sulla mia. Ora che tu sei qui è meglio, molto meglio. Ma è trascorso tanto tempo prima che tu tornassi, e io ho consumato gran parte della mia forza. Nessuno può resistere a lungo ai Tenebrosi, da solo. Sono fortissimi. — S’interruppe: aveva abbassato la voce, e sembrava che avesse perso il filo del discorso. Si passò le mani sulla fronte, e poco dopo andò a bere un altro sorso dalla borraccia. Spezzò un po’ di pane e si sedette, per mangiarlo, sul cofano di fronte.

Ciò che aveva detto era vero: lei sentiva un peso, un’oppressione nella mente che sembrava oscurare e confondere ogni pensiero e ogni sentimento. Eppure non era terrorizzata, come lo era stata quando aveva percorso da sola i corridoi. Soltanto il silenzio assoluto fuori dalla camera le sembrava terribile. Perché era così? Lei non aveva mai temuto il silenzio sotterraneo, prima. Ma prima non aveva mai disubbidito ai Senza Nome, non li aveva mai contrastati.

Alla fine proruppe in una piccola risata lamentosa. — Ce ne stiamo qui, seduti sul più grande tesoro dell’impero — disse. — Il re-dio darebbe tutte le sue mogli per averne uno scrigno. E noi non abbiamo neppure sollevato un coperchio per guardare.

—  Io l’ho fatto — disse lo Sparviero, masticando.

—  Al buio?

—  Ho acceso una piccola luce. La luce incantata. È stato difficile, qui. Sarebbe stato difficile anche se avessi avuto il mio bastone; e senza quello è stato come cercare di accendere un fuoco con legna bagnata, sotto la pioggia. Ma alla fine ci sono riuscito. E ho trovato ciò che cercavo.