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Si divisero un pezzo di pane e un’ultima fetta sbriciolata di formaggio, per colazione; riposarono un po’, e proseguirono.

A sera erano arrivati piuttosto in alto. Il cielo era coperto, e spirava un vento gelido. Si accamparono nella valle di un altro ruscello, dove c’era legna in abbondanza, e questa volta accesero un robusto fuoco di ciocchi che poteva riscaldarli veramente.

Tenar era felice. Aveva trovato il nascondiglio delle noci di uno scoiattolo, messo allo scoperto dalla caduta di un albero cavo: un paio di libbre di splendide noci e di altri frutti dal guscio levigato che Ged, non conoscendone il nome kargano, chiamava ubir. Lei ne spaccò una con due pietre, porgendo all’uomo metà del gheriglio.

—  Vorrei che potessimo rimanere qui — disse, guardando la valle ventosa. — Questo posto mi piace.

—  È un bel posto — riconobbe Ged.

—  Qui non verrebbe mai nessuno.

—  Non molto spesso. Io sono nato tra le montagne. Sulla montagna di Gont. Le passeremo accanto, facendo vela per Havnor, se prenderemo la rotta settentrionale. È bellissima, d’inverno: sorge tutta bianca dal mare, come un’onda più alta. Il mio paese era accanto a un ruscello come questo. Tu dove sei nata?

—  Nella parte settentrionale di Atuan, credo. Non ricordo.

—  Ti hanno portata via così piccola?

—  Avevo cinque anni. Ricordo le fiamme in un focolare… e nient’altro.

Lui si passò la mano sul mento, che, sebbene fosse diventato un po’ irsuto per la barba rada, almeno era pulito: nonostante il freddo, si erano lavati nei ruscelli montani. Si passò la mano sul mento, con aria pensierosa e severa. Tenar lo guardò, e non avrebbe saputo dire cosa sentiva in cuore mentre l’osservava nella luce del fuoco, nel crepuscolo della montagna.

—  Cosa farai, a Havnor? — chiese Ged: e lo chiese al fuoco, non a lei. — Tu sei… rinata veramente: più di quanto immaginavo.

Tenar annuì, con un lieve sorriso. Si sentiva appena nata.

—  Dovresti almeno imparare la lingua.

—  La tua lingua?

—  Sì.

—  Mi piacerebbe.

—  Bene, allora. Questa è kabat. - Ged buttò una pietruzza nella falda della nera veste di lei.

—  Kabat. È nella lingua dei draghi?

—  No, no. Tu non vuoi operare incantesimi: vuoi parlare con gli altri uomini, e donne!

—  Ma come si chiama una pietruzza, nella lingua dei draghi?

—  Tolk - rispose lui. — Ma non voglio fare di te la mia apprendista maga. Ti sto insegnando la lingua che la gente parla nell’arcipelago, nelle Terre Interne. Io ho dovuto imparare la tua lingua, prima di venire qui.

—  La parli in modo strano.

—  Senza dubbio. Ora, arkemmi kabat. - E Ged tese le mani perché lei gli desse la pietruzza.

—  Devo venire a Havnor? — chiese Tenar.

—  E dove andresti, altrimenti?

Lei esitò.

—  Havnor è una città bellissima — disse lui. — E tu le porti l’Anello, il segno della pace, il tesoro perduto. A Havnor ti accoglieranno come una principessa. Ti onoreranno per il grande dono che porti, e sarai la benvenuta. In quella città vive un popolo nobile e generoso. Ti chiameranno «la dama bianca» per la tua pelle chiara, e ti ameranno ancora di più perché sei così giovane. E perché sei bella. Avrai cento vestiti come quello che ti ho mostrato con l’illusione, ma veri. Sarai trattata con elogi e gratitudine e amore, tu che non hai mai conosciuto altro che la solitudine e l’invidia e la tenebra.

—  C’era Manan — disse Tenar, in tono difensivo, con le labbra che tremavano un poco. — Mi voleva bene, ed era sempre buono con me. Mi proteggeva come poteva; e per questo io l’ho ucciso. È precipitato nel nero abisso. Non voglio andare a Havnor. Non voglio andarci. Voglio rimanere qui.

—  Qui… in Atuan?

—  Tra le montagne. Dove siamo ora.

—  Tenar — disse lui, con quella voce quieta e grave, — allora resteremo. Io non ho più il mio coltello, e se nevicherà sarà dura. Ma finché potremo trovare cibo…

—  No. So che non possiamo restare. Era una sciocchezza — replicò Tenar, e si alzò, spargendo intorno gusci di noci, per aggiungere altra legna al fuoco. Era esile ed eretta, nella veste e nel mantello di lana nera, laceri e macchiati. — Tutto quello che so, ormai non serve a nulla. E non ho mai appreso altro. Cercherò d’imparare.

Ged distolse lo sguardo, rabbrividendo come per una fitta di sofferenza.

Il giorno dopo superarono la sommità della catena lionata. Nel valico spirava un vento crudo, carico di neve pungente e accecante. Solo quando furono discesi per un lungo tratto, sotto le nubi delle vette, Tenar vide la terra oltre la muraglia montuosa. Era tutta verde: verde di pinete, di prati, di campi seminati e di maggesi. Perfino nel cuore dell’inverno, quando i boschetti erano spogli e le foreste piene di rami grigi, era una terra verde, umile e mite. La guardarono da un alto declivio roccioso, sul fianco della montagna. Senza parlare, Ged indicò verso occidente, dove il sole stava scendendo dietro una densa spuma turbinante di nuvole. Il sole era nascosto, ma all’orizzonte c’era uno scintillio simile al bagliore delle pareti di cristallo della cripta, una specie di baluginio gioioso proveniente dall’orlo del mondo.

—  Cos’è? — chiese la ragazza; e lui: — Il mare.

Poco dopo, lei vide una cosa meno meravigliosa ma pur sempre mirabile. Raggiunsero una strada e la seguirono; e al crepuscolo li portò in un paesino: dieci o dodici case sgranate lungo la via. Lei guardò allarmata il suo compagno, quando comprese che si stavano avventurando tra gli uomini. Guardò, e non lo vide. Accanto a lei, nelle vesti di Ged e con la sua andatura e con le sue scarpe, camminava un altro uomo. Era bianco di pelle, e non aveva barba. Lui la guardò; i suoi occhi erano azzurri. Ammiccò.

—  Riuscirò a ingannarli? — chiese. — Come sono le tue vesti?

Tenar si guardò. Aveva addosso la gonna e la giubba marrone delle donne di campagna, e un grande scialle di lana rossa.

—  Oh — disse, fermandosi. — Oh, tu sei… sei Ged! — E quando ne pronunciò il nome lo vide con perfetta chiarezza: il volto scuro e sfigurato che conosceva, gli occhi scuri; eppure là stava lo sconosciuto dal volto latteo.

—  Non dire mai il mio vero nome davanti al altri. E io non dirò il tuo. Siamo fratello e sorella, e veniamo da Tenacbah. E credo che chiederò qualcosa da mangiare, se vedrò una faccia gentile. — Lui la prese per mano. Insieme, entrarono in paese.

La mattina dopo ripartirono con lo stomaco pieno, dopo un piacevole sonno in un fienile.

—  I maghi mendicano spesso? — chiese Tenar mentre camminavano per la strada fra i verdi campi dove pascolavano le capre e i piccoli bovini pezzati.

—  Perché me lo domandi?

—  Mi sembrava che fossi abituato a mendicare. Anzi, ci sei riuscito benissimo.

—  Ecco, sì. Ho mendicato per tutta la vita, si può dire. I maghi non possiedono molte cose, capisci. Anzi, non hanno nulla tranne il loro bastone e i loro indumenti, se amano vagare. La gente li accoglie con piacere, e offre loro cibo e riparo. E i maghi ricambiano.

—  In che modo?

—  Be’, quella donna in paese. Ho guarito le sue capre.

—  Cos’avevano?

—  Avevano le mammelle infette. Quand’ero ragazzo, badavo alle capre.

—  Le hai detto che le hai guarite?

—  No. Come avrei potuto? Perché avrei dovuto?

Dopo una pausa, Tenar disse: — Mi rendo conto che la tua magia non è utile solo per le grandi cose.

—  L’ospitalità — replicò Ged, — la cortesia verso il forestiero, è una cosa grande. I ringraziamenti bastano, naturalmente. Ma le capre mi facevano pena.